Quando Voltaire incontrò Shahrazade
Il recital che segue è stato pubblicato dal portale di divulgazione culturale strane.ba, di Mostar, tradotto in croato dalla professoressa Lorena Monica Kmet. Nel 2015 è stato messo in scena dall’Actis. Nelle immagini l’attore e regista Giorgio Amodeo e la danzatrice Valentina Morpurgo, interpreti dell’opera.
La poetessa libanese May Ziadeh sostiene che i libri sono l’unico posto al mondo in cui due sconosciuti si possono incontrare intimamente. Così è stato per me, quando ho incontrato la prima volta Shahrazad, nelle Mille e una notte della mia infanzia trascorsa in solitudine. Sì, ero destinato alla solitudine fin da piccolo, fin da quando non giocavo ai soldatini e non guardavo Playboy come tutti gli altri. Fin da quando l’insolito, il curioso, il diverso per antonomasia, mi hanno cinto nel loro eterno abbraccio, come fossero un corpo unico di un essere soprannaturale e ultraterreno. Quell’abbraccio dal quale non mi sarei mai potuto o voluto liberare.
Nella vita poi ho seguito il raziocinio: la ragione insegnatami da Kant, il logos dei greci, l’Illuminismo di Voltaire. Anzi, mi sono immedesimato in Voltaire, mi sono posto con arroganza al suo livello e l’ho sempre citato in tutti i miei scritti, nella mia pomposa carriera universitaria e letteraria, mi sono arricchito grazie a lui. Sono sempre stato figlio dell’epoca della filosofia, immerso dalle radici nella cultura laica e critica di un mondo non più teocratico, privo di connotazioni religiose evidenti e fondamentalmente ateo, oltre che anticlericale. Ma con tutto il mio laicismo e il mio illuminato raziocinio, col mio sbandierato ateismo, sono intriso di cultura religiosa. Ho passato vacanze intere in giro per chiese e monasteri, in tante parti del mondo; ho collezionato icone e Madonne popolari, approfondito la Torah, letto il Corano, studiato la Bibbia. La mia identità passa anche attraverso la cultura dei simboli nei quali non mi riconosco, rendendo evidenti le contraddizioni del mio essere. Ed ho sempre cercato Lei, Shahrazad, nei libri letti, nei film guardati, nelle canzoni ascoltate, nei dipinti ammirati, nell’incanto di una scultura contemplata. L’ho cercata nello sguardo delle donne che ho avuto e in quello delle donne che ho solo desiderato; la cerco tuttora, in tutte loro, nelle studentesse ventenni all’università – quelle che pendono dalle mie labbra –, come negli occhi delle fanciulle altere che mi fissano dai manifesti pubblicitari. Cerco quella femmina colta, piena di risorse, intelligente e furba, capace di salvarsi la vita persuadendo un piccolo uomo – che si sente un Dio – a non sacrificarla, raccontandogli “storie” che solo lei sa raccontare. Non è una donna succube Shahrazad, non una preda facile. Per questo la inseguo da anni. Mi è capitato di trovarmi di fronte a lei molte volte; l’ho scorta, vista, osservata, sfiorata nel luogo più intimo del mondo, tra le pagine di un libro. Ma non l’ho mai conquistata, non si è mai fidata di me. Shahrazad è un essere strano e sfuggente, caparbio e suadente, può addirittura essere autodistruttivo. Lei può permettersi anche di uccidere se stessa o il suo riflesso nel mondo, come fa Joumana Haddad che la strangola con le sue mani. Perché, dice, qualcuno doveva pur farlo, qualcuno doveva uccidere l’idea di una donna che salva la vita raccontando storie, una donna che non graffia e non morde per salvaguardare la sua dignità. Ed è solo una donna a poterlo fare: solo un’altra Shahrazad può smettere di raccontare la Storia per farla, finalmente, la sua Storia.
Una di queste mattine però mi sono svegliato più tardi del solito, ho aperto gli occhi in una stanza illuminata dalla fredda luce dello schermo televisivo. Sulle lenzuola si rovesciarono immagini di sangue e di morte, di kalashnikov e di urla, di redazioni giornalistiche sterminate e di vignette condannate, di ideali bruciati e ridotti in cenere. Dov’eri Shahrazad quella notte? Quale storia hai raccontato? Con chi ti sei congiunta senza graffiare e mordere, senza ribellarti e uccidere? Dov’è la tua Storia adesso Shahrazad? Sono confuso, deluso, arrabbiato, furente, disperato, solo, assediato, imbarbarito. Sono stanco e disgustato dalla mia ingenuità, dalla tolleranza della mia civiltà, dal progresso laico della mia generazione rivoluzionaria a parole, attonita e impotente davanti allo spettacolo del terrore e dell’orrore. Mi sento inutile e piccolo mentre osservo Voltaire inginocchiato, legato e decapitato da una mano decisa, con metodo medievale, nell’era turbo-tecnologica 2.0. Non sono lui, Voltaire, non sono un suo degno discendente. Forse non sono nemmeno un uomo che vive in un mondo di uomini. Sono solo un opportunista che si riempie la bocca di concetti e frasi altisonanti, sono un aristocratico del pensiero inutile, un vacuo analista della contemporaneità che non contribuisco in alcun modo a definire. Mentre vendono Shahrazad per cento dollari al mercato, stuprano i suoi figli, annientano la sua civiltà, io non sono nemmeno in grado di prendere posizione sulla salvaguardia del mio mondo, vittima e carnefice della sua stessa decadenza. Così vago per le città del Vecchio Continente, tra una conferenza e l’atra, tra una dedica e l’altra sui miei preziosi libri di carta riciclata e quasi non ho più il coraggio di alzare lo sguardo, di cercare gli occhi di Shahrazad. Perché temo di poterli incrociare, temo di essere riconosciuto e visto per come realmente sono. Quindi mi stendo a letto e accendo la tv, ecco così, mi faccio inondare nuovamente da quella luce fredda e distorcente, in una camera d’albergo uguale a tutte le altre.
Lo sguardo, il Suo sguardo! Sharhazad mi punta dallo schermo, mi fissa con i suoi occhi neri. Veste una divisa, ha i capelli raccolti, imbraccia un’arma e si muove tra le rovine di Kobane. Racconta la sua storia Sharhazad, quella storia che tanto mi spaventa. Dice che la devo ringraziare, lo dice decisa e priva di titubanze, da quel desertico suolo fatto di macerie, proiettili e fumo, da quella porta sull’Occidente che lei, una donna musulmana, difende al posto mio. Mi sento denudato, quasi scorticato dallo strato di convinzioni e certezze che mi sono cucito addosso negli anni, come se un bagno gelido di realtà dissolvente mi mettesse finalmente di fronte alle mie responsabilità di uomo, di essere umano. Ora so, adesso ho finalmente capito. In futuro racconterò la tua Storia Sharhazad, la storia di quella ragazza di Kobane che imbraccia un’arma tanto grande, pesante come un fardello millenario di ingiustizie e sopraffazioni. Lo giuro a quegli occhi neri che mi fissano dallo schermo, senza timori, senza vergogna. Racconterò al mondo intero di quando Voltaire incontrò Sharhazad, in un filmato televisivo, in un’anonima stanza d’albergo, in una capitale europea come un’altra, e lei lo salvò, senza indecisioni, senza paura, senza raccontare storie.