La Promessa Sposa
Il racconto “La Promessa Sposa” è stato interpretato dall’attrice Luisa Mari in occasione del Giorno del Ricordo (2012) al Comune di San Vito al Tagliamento, rappresentato anche presso la Libreria Borsatti di Trieste il 17 marzo 2012. Tradotto in serbo-croato da Lorena Monica-Kmet e pubblicato dalla prestigiosa rivista di Novi Sad (Vojvodina) “Nova Misao”, nel 2013.
Il sole all’orizzonte tinge di rosso il cielo sterminato della prateria, crea scie di fuoco che piovono come lance sulla terra rossastra, illuminando con gli ultimi raggi del giorno la vegetazione frastagliata, assetata di acqua. Siedo all’ombra del grande albero di pepe, dal fusto impressionante. Ho vissuto tanti pomeriggi in questa terra desertica, intrisa di polvere, sotto cieli talvolta minacciosi, in procinto di scatenare violente tempeste secche. I fulmini qui sono scariche di energia terribili, illuminano il cielo a giorno e cadendo sul suolo, provocano incendi apocalittici. L’uomo è poca cosa se paragonato all’impietosa temperie di questo Continente, alla sua natura indomita e impossibile da piegare.
Vivo in Australia da tanti decenni, da molto prima che i capelli si tingessero d’argento ed i segni del tempo segnassero la pelle del mio viso. Sono diventata donna in questo luogo, ho dato alla luce quattro figli nella casa coloniale alle mie spalle, poi, all’improvviso, sono invecchiata, in mezzo alla terra rossa e all’afa del Continente Nuovo, senza quasi accorgermene. In questo mondo sconosciuto ai più, ho compreso la realtà della vita, nei suoi aspetti più disincantati, disillusi e veri. Non c’è finzione sotto il sole crudele dell’Australia, non c’è artifizio. La pelle si screpola funestata dalla sabbia, i capelli non sono mai puliti, il corpo si protegge con vesti che lo difendono dagli elementi e dai tanti animali velenosi. I trucchi non si usano, non ci sono maschere.
Mi sembra di aver vissuto sempre qui, ho la sensazione di appartenere a questa terra, come ogni suo granello, come ogni albero di eucalipto, come ogni sciacallo che ulula la notte.
Oggi però una parte del passato è affiorata, sgusciata fuori dall’anima, dalla parte meno cosciente, ed ha invaso ogni cellula che compone il mio organismo.
Avevo appena sparecchiato e stavo lavando i piatti nell’acquaio sotto la finestra che dà sul giardino, al pian terreno della casa. La televisione nuova che mio marito mi ha regalato per il compleanno era accesa, trasmetteva le notizie dal mondo. Il televisore ultrapiatto, ultra tecnologico, collegato con ogni meandro del pianeta attraverso l’antenna satellitare che i nostri figli hanno voluto appena adolescenti, mi apre una finestra su ciò che accade fuori dal territorio più remoto del Nuovo Galles del Sud. La notizia è stata data da una giovane giornalista indiana della BBC World, quasi sul finire del notiziario, con un timbro di voce perennemente immutato, simile ad una cantilena. Ed ecco che la mente percepisce una scossa, ecco che i ricordi e le sofferenze si ripresentano alla porta della coscienza, come ospiti sgraditi. La voce giovanile e asettica della giornalista mi informa che nel Vecchio Continente dal quale provengo, in mezzo alle Nazioni dove ho vissuto la prima parte della vita, nel fazzoletto di terra che mi ha visto venire alla luce, qualcosa era cambiato. Il confine che separava l’Italia dall’ex Jugoslavia è definitivamente sparito, in base a degli accordi della Comunità Europea, ad uno strano trattato dal nome impronunciabile, Schengen credo. Sì, nulla d’importante o significativo per gli australiani, o per chiunque nell’Oceania, America o Asia, forse nemmeno per la maggior parte degli europei che vivono nelle ricche e popolose Nazioni. Però io, anche se negli anni l’ho negato persino a me stessa, sento che la notizia va a toccare un tasto dolente di un passato del quale non parlo mai, di cui nessuno sa niente.
Ed ecco che mi rivedo bambina, con i capelli neri come quelli di Biancaneve nel film della Disney, la pelle chiara, vestita da maschiaccio, sfrecciare con i pattini lungo le rive di Pirano. Mia madre dalla casa azzurra, dalla piccola finestra del tinello, mi implora di non finire in mare. Molto spesso non le do retta e mi tuffo nelle acque del mite Adriatico con i vestiti ed i pattini addosso. Pensare a quella fase spensierata della vita ora mi provoca un sorriso, un momento di lieve e piacevole malinconia. Mamma e papà si amavano tanto, erano una coppia invidiata. Anche se lui navigava ed era via spesso, all’ora di cena, a casa, si apparecchiava anche per lui. Mamma riteneva fosse suo dovere farlo, poi le sembrava di averlo vicino a tavola. Sul comodino, accanto al letto, c’era la sua foto incorniciata e lei spesso la metteva sul cuscino o accanto al cuore quando dormiva. Questo rapporto sarebbe diventato una vera ossessione quando gli eventi avrebbero fagocitato le nostre vite, distruggendo ogni cosa, inaridendo l’esistenza stessa. Lei impazzì quando papà scomparve, durante la guerra. Non si rese nemmeno conto di ciò che stava avvenendo in Istria, non capì che eravamo estranei a casa nostra, fino a quando non perse tutto. Studiavo al collegio di Capodistria, ero una bambina nel 1945. Mia madre, indebitandosi fino al collo, ipotecando la casa, aveva messo su un negozio di calzature nel centro di Pirano. Amava vestirsi bene, curare l’aspetto, usare profumi. Adoravo le perle bianche che teneva nell’astuccio, erano bellissime, sulle camicette di pizzo che indossava. Da grande le avrei avute io, mi sarei sempre vestita bene e sarei stata bella come mia madre, questo pensavo. Era mattina presto, nemmeno le sette, quando le suore del collegio spaventate ci vennero a chiamare nelle nostre stanze. Dissero che i partigiani erano entrati nell’Istituto, che a loro poco interessava se era religioso, li definirono “senzadio”. Dovevamo vestirci in fretta e uscire dall’edificio. Avvenne tutto con una rapidità impressionante, gli uomini con le stelle rosse sulla fronte ed i mitra spianati entrarono nella stanza, urlando qualcosa d’incomprensibile. Poi iniziarono a metterla a soqquadro, tirando fuori tutto dagli armadi per poi calpestare vestiti e biancheria. I materassi di lana che ogni ragazza doveva portarsi da casa, finirono fuori dalle finestre, seguiti dalle lenzuola linde ricamate a mano, dai vestiti e dai libri. Mi sentivo frastornata, li osservavo inebetita, non sapevo che dire. Uno di loro mi notò, si avvicinò inferocito e mi urlò qualcosa. Io balbettai, indietreggiai fino alle scale. Il partigiano mi puntava il mitra e le mie compagne pensarono che volesse spararmi. Fece cenno di scendere le scale, capì che intendeva di corsa. Pensai che forse voleva spararmi alle spalle, così mi misi a correre come una forsennata, saltando molti scalini. Persi l’equilibrio e caddi rovinosamente, pensai che avrei fracassato la testa. La caduta violenta non mi uccise, però mi rese col tempo quasi sorda dall’orecchio sinistro.
Tornai a casa sconvolta e spaventata, in lacrime. Non piangevo mai, mia madre non era abituata a vedermi così abbattuta. Disse di stare tranquilla, che non era niente, l’ordine sarebbe ritornato e assieme ad esso, forse, anche papà. Non andò così, il peggio doveva ancora venire. La regione era nel caos a guerra finita, pareva che gli eventi più cruenti e paurosi da noi dovessero avvenire mentre il mondo festeggiava la fine del conflitto. Quando i partigiani requisirono il negozio della mamma, tutti i nostri beni, cacciandoci di fatto da casa nostra, lei rimase paralizzata. La osservai, pareva una statua di sale. Il partigiano armato le disse, in italiano, che aveva mezz’ora di tempo per fare l’inventario della merce e consegnargli le chiavi. Non era possibile fare l’inventario così rapidamente, lo sapevano entrambi, allora la mamma gli diede solo le chiavi. Poi, con voce implorante, domandò se poteva almeno rimanere come commessa nell’attività che aveva creato, lei una donna sola, negli anni della guerra. L’uomo rispose sprezzante che non c’era lavoro per una capitalista in quel posto. Fu così che lasciammo per sempre l’Istria. Ricordo le sue lacrime, il suo pianto disperato quando chiuse la porta di casa e, con pochi bagagli, mi portò al vaporetto per Trieste. Non sapevamo esattamente cosa ci stava per accadere, non avevamo nemmeno il tempo di pensarci: Pirano si stava svuotando, tutti erano diretti ai vaporetti. Quando un mondo si sostituisce ad un altro, le vittime del cambiamento salgono sempre su navi o treni, senza conoscere il proprio destino. Il nostro era un destino comune a molti, all’epoca quasi tutti ne erano a conoscenza, successivamente per convenienza politica si è preferito dimenticare. La destinazione fu un campo profughi sull’altopiano triestino. Per certi versi quel luogo assomigliava ad un campo di concentramento, c’erano i controlli per entrare e uscire, ci trattavano come sospetti o addirittura delinquenti. Cos’avevamo commesso? Quale era la nostra colpa? Con il tempo riuscì a rispondere a questa domanda, la prima di una lunga serie che mi posi quando varcai quei cancelli. La nostra colpa era di esistere; chi ci accoglieva doveva farlo, ma avrebbe preferito chiudere i conti con il passato e magari obbligarci a tornare da dove eravamo venuti. Seppi che Laura, la mia migliore amica, partì con un treno per il sud Italia. Mi scrisse che alla stazione di Bologna fu impedito loro di scendere dal treno, anche se morivano di sete. Gli operai delle ferrovie minacciarono lo sciopero ed il blocco di tutti i treni se fossero scesi, accusavano i profughi di essere dei fascisti che fuggivano dal paradiso comunista balcanico, per venire nell’inferno capitalista. Laura non capiva il perché di quest’ostilità, mi scrisse anche che essendo italiana dove altro poteva andare se non in Italia? Non provai nemmeno a consolarla, la nostra amicizia si stava frantumando a causa della distanza, poi nel campo di Capua l’idea ed il ricordo di casa sarebbero svaniti prima che a Trieste. A me invece, sull’altopiano, tutti ricordavano chi ero e da dove venivo. Nemmeno in città, tra le viuzze del centro, nei quartieri popolari come San Giacomo, nei negozi e nei caffè, nelle piazze o al mercato, ad un’istriana venivano risparmiati insulti o attacchi. Ci odiavano, era evidente. Dicevano che eravamo privilegiati, l’amministrazione alleata prima e lo Stato italiano poi, si occupava di noi; avevamo il sussidio, pasti regolari al campo profughi e si parlava di un piano per costruire delle case dove alloggiarci. Eravamo quelli che rubavano il pane di bocca ai triestini, la genìa povera e ignorante che, a loro dire, aveva invaso la città; non ci volevano e non capivano perché venivamo accolti. Sull’altopiano spesso frotte di manovali inferociti attendevano la “concorrenza” istriana davanti ai cancelli, con i manici dei picconi in bella mostra, per minacciare chi cercava un lavoro anche umile e non pretendeva un grande stipendio. Vivevamo come molti immigrati oggi, in qualsiasi Paese occidentale saturo di scontri fra classi sociali e disagio occupazionale, solo che a differenza di loro noi non avevamo più una casa alla quale tornare. Non avevamo niente e spesso sentivamo di non essere niente, solo gente senza valore considerata una rogna dalla politica. Alla sera discutevamo sotto voce con la zia Nives e suo marito, cercavamo di pianificare un futuro possibile, ignorando per un momento che eravamo chiusi in un campo, stipati in baracche di legno, in spazi separati gli uni dagli altri spesso da sacchi di iuta che toglievano ogni barlume di intimità, costretti a dormire su materassi gettati per terra alla rinfusa. Di notte si udiva tossire, strillare i bambini, imprecare e piangere gli adulti. Il freddo pungente del Carso entrava dalle fessure, spinto dalla gelida bora. Le madri scaldavano i panni sui fornelli e li mettevano sui petti dei bambini, cercando di riscaldarli. Non sempre funzionava, a volte la morte, con le sembianze della polmonite, se li portava via. Non potevo pensare di vivere a lungo in quel modo, solo l’idea di trascorrere la vita sperando in un cambiamento mi metteva angoscia. Tutto ciò che era avvenuto noi non avevamo contribuito ad innescarlo. Si faceva un gran parlare delle responsabilità in questa tragedia senza fine, con tanto di contrapposizioni ideologiche. La verità era che a sbagliare furono le Nazioni, la politica, l’ideologia e i loro servitori, però a conti fatti, come sempre avviene, a pagarne le conseguenze fu la povera gente. Questa semplice, banale, scontata, universale verità, mi impediva di discuterne o anche solo di pensarci. Gli anni trascorsi in quel posto si accumularono, lentamente, inesorabilmente, come al rallentatore. Passò la fase della scuola, dello sviluppo, dell’avviamento professionale. Mi ritrovai ragazza, con il mestiere di magliaia quasi imposto e la prospettiva, nel migliore dei casi, di finire in una fabbrica per quattro soldi. Fu in quel momento che esplose la mia ribellione, che emerse il lato più indomito e forte del mio carattere. Osservando mia madre, affranta, distrutta, invecchiata prima del tempo, che si trascurava e struggeva per aver perso tutto, per aver perso anche il marito, decisi che me ne dovevo andare. Quando lo comunicai ai parenti nell’antro infernale del campo, rimasero basiti. Mi chiesero dove sarei potuta andare, io, una ragazzina sola, senza soldi, senza aiuti, in quel dopoguerra per noi così tragico. Il mio essere taciturna e scontrosa, con i parenti ma anche con le altre ragazze, le mie coetanee, di quel borgo di diseredati, aveva attirato su di me l’antipatia generale. Non mi piegavo, non accettavo quell’orgogliosa dignità che ostentavano gli altri, quella moralità che impediva loro di agire in modo pragmatico. Dopo aver appurato che partire per l’America sarebbe stato difficile se non impossibile e compreso che l’Italia e l’Europa, antiquate e crudeli con i propri figli, mi stavano strette, cominciai ad esplorare orizzonti lontani, in capo al mondo. Mi dicevo che forse lì, in un mondo così distante, a nessuno poteva interessare se ero istriana o meno. Da Pirano durante l’esodo era partito anche Don Lino, il prete che mi aveva battezzata, dato la prima comunione ed accompagnata dal vescovo per la cresima. Da tempo teneva i contatti tra gli istriani partiti per l’America o l’Australia e le loro famiglie a Trieste. Mi presentai una sera sul tardi, avvolta nel mio scialle nero, con i tacchi troppo alti per quel suolo e un rossetto troppo acceso per le labbra di una timorata di Dio. Nella tasca avevo una fotografia che mi ritraeva a figura intera, scattata da un fotografo del centro. Dissi al prete, sorpreso dalla mia venuta, di mettermi in contatto con qualche giovanotto desideroso di trovare moglie e di abbracciarla in Australia. Non dissi niente a nessuno, nemmeno a mia madre. Nel giro di un mese arrivarono le risposte, più numerose di quante potessi immaginare. A Sidney la comunità istriana cresceva da tempo e la crescita economica delle famiglie andava di pari passo. Tra i pretendenti che mi volevano sposare, c’era il figlio del panettiere di Pirano, il signor Flego. Non lo vedevo da quando eravamo ragazzini, ricordavo che era un piccolo teppista, ci tirava i sassi quando andavamo al mare. Mi spedì anche lui una foto ed era di sicuro il giovane più attraente e benestante tra quelli che avevano scritto. Così gli dissi di sì, senza pensarci troppo e provare un qualsiasi senso di colpa. Mia madre pianse e si disperò, promise che avrebbe fatto di tutto per impedirmi di raggiungerlo, considerando che non avevo ancora ventun’anni. Solo dopo una lunga opera di convincimento da parte degli zii, desiderosi di farmi partire per avere più spazio nella baracca, acconsentì e firmò il benestare. Dopo poco partii, con una valigia che non faceva fatica a contenere tutti i miei averi. Mi imbarcai su una grande nave che mi avrebbe condotto lungo un viaggio infinito, verso l’ignoto. Quando salii, sola e spaventata, su quel mostro di lamiere e motori pulsanti, non sapevo che lì avrei incrociato il destino. Dopo settimane di navigazione, su quel mare sconfinato, fuso con il cielo immutabile, avevo perso i contatti con me stessa e con ciò che ero stata. La sera salivo sopra coperta, sul ponte, mi ritiravo in un angolo di solitudine e guardavo le stelle, i soli punti luminosi visibili. Quella notte era molto tardi, il ristorante dei passeggeri ricchi stava chiudendo ed i camerieri riordinavano la sala. L’esplosione di un brano musicale, all’improvviso, mi scosse. Qualcuno nella sala stava suonando e la musica si propagava tra le lamiere, scendeva verso il basso, verso la pancia della balena meccanica, dov’erano imprigionati i passeggeri poveri come me. Mi strinsi nello scialle, provai freddo, nostalgia, dolore. Ero sola e pensai di aver commesso un errore imbarcandomi in quell’avventura. Fu allora, poco prima di scoppiare a piangere, che lo vidi. Lui era vicino a me, mi sorrideva, diceva qualcosa che non capivo. Vidi solo che indossava la divisa, era alto e magro, e sembrava turbato dalla mia tristezza. In un attimo non mi sentii più tanto sola, gli sorrisi anch’io. A Sidney non scesi mai, non raggiunsi il figlio del signor Flego, lo feci prima, con Richard, mio marito. Durante la navigazione ebbi modo di conoscerlo e di innamorarmi. Non mi sono mai pentita della scelta, la rifarei mille volte se tornassi indietro. Ed ora eccomi qui, dove il destino mi ha portata, nel posto più vicino alla mia essenza. Però le radici sono altrove ed il dolore, adesso lo so, è soltanto sepolto dalla coscienza. Ci si può sentire a casa solo se si rispettano le radici, perché in fondo l’essenza di ciascuno è nutrita da esse. Oggi mi sento quella bambina di Pirano, con i capelli neri di Biancaneve e l’incanto di una creatura che ha imparato troppo presto le brutture dell’uomo.La Storiaè un vento gelido come la bora, spazza via nefandezze e ideali, forse rende anche l’uomo un essere migliore.