Fiorisce la tradizione: i fusi della cucina istriana
Da anni la Santa Pasqua è accompagnata da cattivo tempo, acquazzoni, inverni che si riaffacciano quando ormai sembrano dimenticati, riunioni di famiglia al chiuso e grigliate saltate. La tradizione fiorisce in ogni caso a Pasqua, con pranzi infiniti e godibili, particolarmente sfiziosi ma al chiuso. Poi, però, capita come quest’anno un tempo sufficientemente clemente da consentire un paio di giornate all’aperto (sempre con l’ombrello a portata di mano), di tavole colorate contornate dai raggi di sole. Così come la natura fiorisce negli orti, anche le tavole imbandite a festa fanno fiorire la tradizione.
Gli addobbi offrono un’atmosfera magica nella tenue luce pomeridiana, come fossero di buon auspicio per i tempi futuri, forieri di gioia e positività.
Ed ecco che cucinare diventa un’esperienza esaltante, profonda, una rievocazione di ricordi lontani, di sapori che ci riportano indietro nel tempo, ci fanno ritrovare gli affetti più cari che non ci sono più. Per me preparare i fusi, la mitica pasta istriana, nello stesso luogo dove mia nonna Eufemia li ha preparati per tutta la vita, si trasforma in un sublime atto di fusione sensoriale e spirituale che solo un rito antico può riservare. I fusi prendono il nome dal fuso per il telaio a mano degli antichi tessitori, al quale in effetti assomigliano. La famiglia Punis, dalla quale provengo, era appunto una famiglia di artigiani che si guadagnavano il pane con questo strumento. Nella vita e nella storia di un individuo, tutto si lega.
I fusi sono un tripudio di sapore, l’apoteosi dell’istrianità nel gusto e nell’impegno per realizzarli. Occorre usare dell’ottima farina (grani antichi con poco glutine), uova fresche del contadino, un filo d’olio, poco sale e acqua tiepida. L’impasto va lavorato a lungo, deve risultare liscio ed elastico. Poi lo si stende in una grande sfoglia, con un mattarello adatto, senza alcuna macchina che faciliti il lavoro. Dalla sfoglia si ricaveranno strisce di pasta che si divideranno in rettangoli, e da questi si ricaveranno i fusi, avvolgendo la pasta intorno ad un bastoncino. Non è possibile spiegare la procedura a parole, occorre essere presenti mentre si realizzano, occorre provare e riprovare finché non si ottiene il risultato ottimale. I fusi possono essere conditi in vario modo: dai sughi di carne mista alla selvaggina, da quelli vegetali all’oramai onnipresente e noioso tartufo che tutti i presunti “agriturismo” istriani propinano. Io ho scelto la tradizione di famiglia, ovvero il sugo di carne rossa con la salsa di pomodoro fresco, fatta sul momento. Il sugo di carne è una variante italiana del gulash ungherese. Si soffrigge della cipolla generalmente, personalmente però prediligo il porro affettato sottile e poco soffritto, risulta essere più leggero, profumato e digeribile. A questo si aggiunge la carne a pezzi, dell’alloro, le spezie che si preferiscono (in questo caso la santoreggia), il sale e il pepe (facoltativo). La carne deve cuocere molto a lungo, in un pentola adatta – nella foto vediamo una pesante pentola in ghisa. A questo punto si porta ad ebollizione un capiente pentolone di acqua salata (farlo bollire sulla stufa a legna come cento anni fa non ha prezzo) e vi si tuffano dentro i fusi. Cuoceranno pochi minuti, saranno pronti quando emergeranno in superficie. Si scolano, si condiscono col sugo e si arricchiscono con del parmigiano. L’uso del formaggio emiliano avvicinerà i fusi istriani ai loro fratelli naturali: i garganelli.