Cuore di mamma
Era sempre indaffarata, con le sue stoffe, le sue scadenze, le sue clienti che volevano abiti impossibili per renderle irresistibili agli occhi del mondo. Ricordo così mia madre alla fine degli anni Settanta, quando ero piccola e curiosa come poche creature al mondo, e seguivo i percorsi del suo gesso bianco sulle stoffe scure, i punti veloci della sua macchina da sarta professionale, le sue messe in prova su un vecchio manichino. Erano gli anni della serenità, lontani dalle insidie del tempo e dei crucci delle fasi successive. Vivevamo in quel piccolo paese sperduto tra i monti carsici, in mezzo ai boschi e alle case in rovina. La sua sartoria era il punto di riferimento delle donne dei dintorni, il luogo del vezzo e delle necessità femminili, delle minigonne che lei consigliava alle belle ragazze (quasi uno scandalo tra i contadini), dei sobri tailleur per le signore in carne. I vestiti da sposa erano meravigliosi, riproponevano l’ultimo ideale dello stile hippy fatto di maniche vaporose, fiori, cappelli giganteschi. Non dimenticherò mai quella sua intensa fase creativa, le numerose riviste di moda che lasciava ovunque, con annotazioni e idee per la realizzazione di modelli spesso arditi. Tutta l’intellighenzia comunista veniva da lei a farsi confezionare i vestiti, alla ricerca di quel suo spirito occidentale in grado di operare trasposizioni dalla carta alla stoffa. Mio padre lavorava con lei, fianco a fianco, dando l’opportunità agli sposi di farsi confezionare i vestiti per la cerimonia nello stesso posto. Sono figlia di due sublimi artisti, semplici nell’anima e dal cuore generoso, dignitosi e orgogliosi della loro onestà fino alla fine. Fossi stata figlia dei cosiddetti “rimasti” compromessi con il regime, la mia vita sarebbe stata diversa. Gli italiani d’Istria che emergevano erano i fedelissimi di Tito, i lacchè del dittatore, particolarmente ostili a chi non si adeguava alla loro sottomissione. I loro figli frequentavano immeritatamente le scuole migliori, vivevano vite agiate, avevano tanti aiuti dall’Italia che riconosceva – al solito – solo i lacchè. Già, fossi stata la figlia dei servi del dittatore ora lavorerei alla televisione della minoranza, oppure alla radio, meglio ancora nell’editoria, sarei vista come un punto di riferimento del gruppo etnico italiano. Invece i miei genitori non erano così, non erano in vendita. Abbiamo mangiato il sale della terra, abbiamo fatto tutti i percorsi in salita, però ciò che abbiamo ce lo siamo guadagnato ed è realmente nostro. Questo è l’insegnamento di mia madre, l’insegnamento principale che dà un senso alla mia vita. Il ricordo di mio padre, che era meno puntiglioso forse ma non meno risoluto, lo avverto come una lacerazione, una ferita che non sminuisce il coraggio del suo insegnamento. Il giorno del compleanno di mia mamma, il primo da vedova, l’ho vista fiera di se stessa e di quello che ha costruito, l’ho vista bella col suo sorriso vivace, come in una vecchia immagine del passato.
Una donna forte e intransigente che a volte faccio fatica a capire; stento a seguire la sua logica morale che non le fa mai deviare i percorsi. Fin dal suo nome insolito, Romanita, ha sempre dimostrato la sua unicità. Dal canto mio sono un’artista dall’animo caotico, poco incline a seguitare sulla stessa strada, piena di idee che voglio realizzare a modo mio. Mia madre forse non lo capisce del tutto, però lo approva sempre ed è orgogliosa dei miei risultati. La mancanza di meritocrazia la fa soffrire, l’ha sempre fatta soffrire; dal giorno in cui hanno ostacolato la mia iscrizione alla scuola superiore in lingua italiana a Buie, a tutte quelle volte in cui ho pubblicato un libro in Italia (ben dieci) e non ho ricevuto la considerazione che la mia fatica avrebbe meritato. Eppure lei è sempre lì, nella sua casa del centro città, un nido che mi accoglie e che mi dà la forza di volare ancora, nonostante tutto. Il suo cuore di mamma non si è mai arreso, mi ha incoraggiato e mi incoraggia ancora, tutte le volte che sono stanca e vorrei mollare. No, non sono figlia dei lacchè con vent’anni di contributi pagati nelle discutibili istituzioni della mia terra d’origine, o nei oltraggiosi sistemi nepotistici di quella d’adozione, non sono un’opportunista che si mantiene sul vago o nel compromesso per avere dei vantaggi: sono figlia di due deliziosi artisti che non avevano paura di camminare nella sterpaglia a testa alta, piuttosto che strisciare come rettili ai piedi del padrone.