Gargantueschi pranzi istriani
Qualche giorno fa ho rivisto il truculento film di Quentin Tarantino Kill Bill Volume II, con la conturbante Uma Thurman e un partèer di attori di alto livello. Tra di loro vi è anche la splendida Daryl Hannah, nel ruolo di una spietata killer che elimina, attraverso il morso del letale serpente tropicale mamba nero, il personaggio interpretato da Michael Madsen. In quell’occasione la spietata assassina usa la parola “gargantuesca” per descrivere la quantità di veleno che l’animale usa per uccidere le prede, aggiungendo che sono molto rare le occasioni in cui questo bel termine sia utilizzabile. Mi rendo conto che questa è una premessa quanto mai insolita per un pezzo che parla di cucina, in una rubrica ad essa dedicata. Eppure in quel momento mi è venuto di rispondere alla biondissima Daryl, dicendole che nella cucina istriana è uno dei termini più adatti e rappresentativi. Proprio così, i pranzi in famiglia, la domenica in particolare, sono decisamente gargantueschi. Degni niente meno che del gigante Gargantua, leggendario personaggio del romanzo Gargantua e Pantagruel di François Rabelais. Le calorie, le quantità sia di cibo che di bevande alcoliche, sono tutt’altro che salutari. Tuttavia se si è istriani, con una lunga tradizione culinaria familiare, non è possibile prescindere dalla ricchezza e dalla complessità di queste preparazioni. Nelle case istriane vi era sempre un quaderno di ricette tradizionali, rimandato da una generazione all’altra attraverso le donne.
Ad esso ho dedicato nel 2012 un libro a metà tra un manuale e un memoir. L’aspetto interessante del raccontare la tradizione popolare attraverso il cibo è rappresentato dalla possibilità di far conoscere i rituali delle occasioni importanti, delle festività religiose, la stagionalità dei prodotti usati, i doni specifici del territorio. Nella parte interna dell’Istria si incontrano, senza mai scontrarsi, la tradizione culinaria veneta (quattrocento anni di Serenissima hanno lasciato un’impronta indelebile) e la tradizione austro-ungarica, a suo tempo avversata politicamente dagli irredentisti ma non dalle cuoche. Ecco quindi due preparazioni “gargantuesche” della domenica in famiglia: gnochi de patate col sugo de carne e strucolo de pomi.
Gnochi de patate col sugo de carne
Mia nonna Eufemia, che è sempre vissuta con noi in famiglia, considerava la pasta all’uovo la sua grande arte, io però la trovavo geniale nella preparazione degli gnocchi di patate. Li faceva talmente uguali che sembravano fatti a macchina. Poi la corposità ed il sapore erano assolutamente inimitabili. Nel mio piccolo li preparo così.
Occorre lessare circa un chilo di patate (quattro porzioni abbondanti di gnocchi finiti) a vapore, con tutta la buccia. La cottura a vapore è l’ideale per le patate di oggi, molto diverse, qualitativamente parlando, dal genere che coltivavamo noi; con questo tipo di cottura rimarranno integre e meno acquose. Si controlla il grado di cottura con una forchetta e, mi raccomando, si cerca per quanto possibile la qualità migliore delle patate; io ad esempio scelgo le rosse con la pasta gialla. Quando sono cotte si pelano ancora calde e si passano con lo schiacciapatate sulla spianatoia. Si stendono per farle raffreddare, si salano e si aggiunge un filo d’olio di oliva, poi si incorpora un uovo e la farina. La quantità di farina va decisa impastando con le mani gli ingredienti, occorre sentire la consistenza della pasta. Più farina verrà aggiunta e più gli gnocchi saranno corposi. Grosso modo per un chilo di patate consiglierei più di 200 g di farina. Finito di impastare si forma un filone e lo si taglia a pezzi. Ogni pezzo deve diventare un filoncino a sua volta, lungo e sottile, poi con un coltello affilato si tagliano tanti pezzetti uguali che saranno gli gnocchi. A questo punto si passano sulla grattugia rovesciata, formando un piccolo solco al centro, importante perché assorbe il sugo. In una pentola di acqua bollente e salata si cuociono fino a quando salgono in superficie. Si tolgono dall’acqua con un passino adatto e si fanno scolare un alto po’ in uno più grande. Il condimento degli gnocchi varia notevolmente, dalla selvaggina alla salsa di pomodoro, dal burro e salvia al ragù. Noi li abbiamo sempre conditi col sugo de carne, una rivisitazione istriana del gulasch ungherese. Anticamente si preparava col battuto di lardo nel quale si soffriggeva la cipolla; poi si aggiungeva la gallina a pezzi, lo spezzatino di manzo e, per ultimo, anche qualche bel pezzo di luganiga fatta in casa. Il sugo bolliva per delle ore, sul finire della cottura si aggiungeva della conserva di pomodoro diluita. Il sugo scelto da me invece, per l’imponente terrina di gnocchi (foto), segue questa filosofia con delle varianti. Niente battuto di lardo ad esempio, gli stomaci contemporanei non sono assolutamente in grado di digerirlo. Poi il porro finemente affettato è meno pesante della cipolla. Lo si soffrigge nell’olio d’oliva, senza farlo dorare troppo. La carne scelta è uno spezzatino di manzo non troppo grande, qualche pezzo di faraona tagliata in ulteriori pezzi, una salsiccia romagnola molto saporita. Si cuociono prima il manzo (per una decina di minuti), poi la faraona e infine la salsiccia a rondelle. La carne va sfumata con del vino bianco secco, vi si aggiungono pure gli aromi: maggiorana, origano, dragoncello e alloro. Si bagna con il brodo vegetale e si cuoce a lungo. Per la faraona non è assolutamente adatto il concentrato di pomodoro, dunque questo sarà un sugo “bianco”. Consiglio di accompagnate il piatto con un vino rosso robusto e corposo, come il refosco dal peduncolo rosso.
Strucolo de pomi
Lo strudel di mele che tutti conoscono io l’ho visto per la prima volta a Trieste, fino a quel momento per me esisteva solo el strucolo, questa variante “morbida” a metà tra una putiza triestina e le veneziane, il dolce della tradizione veneta. La pasta nella quale saranno avvolte le mele è la stessa della pinza pasquale, solo le quantità degli ingredienti saranno diverse. Quindi 300 g di farina (grani antichi, majorca o mix di più tipi), quattro uova, 50 g di lievito di birra, 100 g di zucchero, poco latte tiepido, 50 g di burro, la buccia di un limone non trattato e di un’arancia, un bicchierino di rum, un pizzico di sale. In un recipiente molto capiente sciogliete il lievito con del latte tiepido, aggiungete un cucchiaio di zucchero, alcune cucchiaiate di farina e dell’altro latte, da rendere fluida la pastella. Coprite e lasciate lievitare al caldo. A lievitazione raddoppiata aggiungete 100 g di farina, metà zucchero, metà burro fuso e un uovo, senza smettere di mescolare. Coprite e fate lievitare ancora. Quando l’impasto avrà raggiunto il doppio del volume, mettete la restante farina a fontana sulla spianatoia. Nella fossetta che creerete versate l’impasto lievitato, il resto dello zucchero, il burro e il pizzico di sale. Mentre lavorate energicamente la pasta, aggiungete due tuorli e un uovo intero, la buccia del limone e dell’arancia e infine il rum. Qualora servisse dell’altra farina, tenetela a portata di mano. Bisogna impastare a lungo e non sarà facile, la pasta tenderà ad attaccarsi e sarà pronta solo quando non appiccicherà più alle dita. A questo punto formate un panetto e fatelo lievitare al caldo. Appena le dimensioni saranno raddoppiate potrete rilavorare la pasta. Nel frattempo preparate il ripieno. Grattugiate in un recipiente abbastanza capiente un chilo di mele acidule, aggiungete 100 g di noci macinate, 100 g di zucchero, la scorza di un limone, 50 g di cioccolata grattugiata, un bicchierino di grappa, 80 g di uvetta tenuta in ammollo per una decina di minuti, un pizzico di cannella e due cucchiai di pangrattato soffritto in un po’ di burro. Amalgamate bene l’impasto e stendetelo sulla sfoglia o le sfoglie di pasta (a seconda che vogliate formare un filone solo oppure due) che avrete steso con il mattarello. Avvolgete delicatamente e chiudete sui bordi. Potete spennellare la superficie con il tuorlo di un uovo. Infornate in forno caldo, 160° o 180° a seconda del forno, per un’ora circa.