Come le foglie
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Giuseppe Ungaretti
A scuola l’abbiamo studiata tutti la poesia di Ungaretti Soldati, con le parafrasi dei professori, con gli approfondimenti infiniti delle antologie, con i fiumi d’inchiostro versati a commentare le poche parole usate dal grande poeta per descrivere la condizione umana efficacemente e simbolicamente. Ciò che ho sempre letto in questa poesia è la tragedia dell’impotenza del soldato, dell’annientamento della sua volontà, incluso l’istinto di sopravvivenza. Fu composta nel bosco di Courton nei pressi di Bligny in Francia, durante gli ultimi mesi della Grande Guerra. Il contingente italiano fu inviato a sostenere l’esercito francese per contenere gli ultimi assalti tedeschi. In quelle decisive fasi finali del conflitto la morte incombeva sul destino di ogni soldato, al punto che a chiunque di loro sembrava impossibile sopravvivere in quella trappola mortale. Solo con l’età, con l’accumularsi di esperienze negative, di dolori impossibili da controllare, ho compreso che la metafora delle foglie sugli alberi in autunno riguarda ogni essere umano. La maturità mi ha aperto un universo davanti agli occhi, molto più grande e imperscrutabile di ciò che la mia adolescenziale mente poteva contemplare, e mi ha fornito una moltitudine di prove che sono anch’io una di quelle foglie che cadono, portate via dal vento in ogni direzione. Non solo i miei nonni martoriati nelle trincee della guerra, così ben descritta dai versi di Ungaretti, ma la mia stessa esistenza in balia di forze tanto schiaccianti da ridurmi all’impotenza. Con questi pensieri mi sono persa tra i filari delle viti nel Collio goriziano, in un lembo di terra che fu teatro di sanguinose battaglie all’epoca della poesia di Ungaretti e che ora, in quest’Europa confusa che non ricorda il suo passato, produce nettari d’uva e gioia di vivere.
Le foglie delle viti perdono il verde dell’estate, si tingono d’oro e di bronzo, cadono a terra con un alito di vento. Ed io penso a quanto siano fragili le mie convinzioni, a quanto la vita mi abbia messo alla prova, a tutte le speranze deluse, all’infinità di promesse mancate e, soprattutto, alla mia incapacità di ribellarmi a ciò che non avrei voluto accettare. La disgrazia dell’essere umano è forse il superamento di quella fase dell’esistenza in cui la ribellione la fa da padrona, quando le illusioni sono così realistiche da far credere di poter cambiare il mondo, o per lo meno il corso della propria esistenza. Poi si “cresce”, come dicono sempre, ci si accorge che senza compromessi non si va da nessuna parte, si indossa l’uniforme che la vita impone, e la condizione della foglia cadente diventa drammaticamente evidente. Eppure una scintilla di quella ribellione sopravvive sempre, sepolta dalle macerie della vita e dal fatalismo dell’età adulta; sopravvive a stento, corrosa dal cinismo e dalla tragicità del quotidiano scorrere del tempo, ma è sempre lì, a ricordarci che siamo molto più di un numero nella mischia, più di un soggetto conformista e mansueto incapace di reagire. Ho imparato la forza della reazione paradossalmente dall’impotenza, dal senso di sconfitta davanti alla malattia, alla morte, alla certezza che la vita sia realmente breve e in costante bilico con il baratro. Attraverso le sconfitte, le cadute, le deviazioni assurde dal percorso che mi ero imposta, ho appreso la forza ribelle e anarchica della reazione, la primitiva scintilla che un tempo alimentava la mia anima. No, non sarò mai più la ragazza che leggeva Voltaire e credeva di trovarci tutte le risposte, non potrò mai più vedere il mondo con gli occhi di allora, però dallo sconforto del dolore e della caduta mi risolleverò sempre pensando al fuoco divino di un tempo lontano, un fuoco che ancora dimora dentro di me. Voltare le spalle a ciò che è finito e mi ha ferito, a qualcosa che non potrò mai cambiare e che devo lasciar andare, ecco un cammino che solo un adulto può intraprendere; poi però, davanti ad un’immagine che evoca la vacuità della condizione umana, voglio attingere alla forza che ho ritrovato dentro di me in questi ultimi anni che definisco di “martirio”, forza che mi riporta alla freschezza di un’altra era geologica della mia esistenza.
Aver imparato la crudeltà della vita, la falsità dell’amicizia, la stupidità degli uomini che credono di usarti e manipolarti, non significa in alcun modo adeguarsi o accettare i torti, anzi. Il rifiuto della malvagità, in tutte le sue forme e sfumature, non può che scaturire da una profonda e provata conoscenza della malvagità stessa. Mia zia Libera mi diceva sempre che devo respingere con forza la malvagità, non farla mai penetrare nel mio cuore o nella mia mente. Io aggiungo che solo ora, con il volto segnato dal tempo e l’anima segnata dalla sofferenza, posso dire di aver capito la lezione. Non potrò decidere del tutto sul corso della mia vita, ogni esistenza dipende da mille fattori, però potrò scegliere la direzione come non ho mai fatto prima. Comprendere in modo profondo, intimo, definitivo un concetto apparentemente acquisito come la brevità e la precarietà della vita, dà un senso di compiuta libertà che nessun’altra esperienza può insegnare. Il tempo non si spreca inseguendo gli altri, mantenendo rapporti finiti, amicizie ammuffite e false, prendendosela per le cattive opinioni che gli altri hanno di noi, per le invidie, le maldicenze; il tempo è realmente breve e non è dato all’uomo sapere quanto ne rimane. Abbiamo l’obbligo di essere onesti con noi stessi, di essere comprensivi con le nostre fragilità, perché la forza non scaturisce dall’arroganza del “vincente” che frega il prossimo, bensì dalla capacità di sopravvivere alle avversità della vita. Per chi non è Nietzsche questa massima non è semplice da assimilare nella propria vita quotidiana, quando però ci si riesce la paura ha un ruolo sempre più marginale. Siamo come foglie sugli alberi in autunno, basta la brezza a portarci via, però gli inverni della vita sono seguiti dalle primavere dove tutto può ricominciare un’altra volta.