Il Cappotto Rosso
Racconto pubblicato da “La Battana” del gruppo Edit nel 2007. Successivamente tradotto in croato dalla Professoressa Lorena Monica Kmet ed edito da “Nova Istra”.
La bambina sedeva sulla panca davanti casa, sotto il gelso spoglio.
Era chiusa nel cappotto di panno rosso che sua madre le aveva regalato pochi giorni prima. Fu una bella sorpresa quel cappottino di buona fattura, confezionato da una parente. La stoffa proveniva da un negozio triestino; non una stoffa di lusso, semplice lana, però comperata in città da sua zia.
Quella zia che ormai non abitava più al paese, era andata via con la bisnonna, portandosi dietro poche cose e forse non sarebbe più tornata. Non era l’unica persona che se ne andava in quel periodo; le case si stavano svuotando, una dopo l’altra. Era l’inverno del 1947. Il piccolo paese di montagna stava subendo un autentico esodo, come l’Istria intera.
A febbraio il Trattato di Pace di Parigi aveva definito i confini della regione, segnando fatalmente i destini delle persone.
La bambina col cappotto rosso osservava i genitori della sua amica prediletta caricare le masserizie sul camion che sostava davanti all’ingresso della loro piccola casa. Era uno spettacolo triste, straziante. Se ne stavano andando tutti, tutti abbandonavano il paese o l’avevano già fatto nei mesi precedenti. Lei provava una sensazione di vuoto, come se qualcosa l’avesse privata completamente d’ogni pensiero, emozione, sogno. Tra non molto se ne sarebbe andato anche il suo papà, ma non per trasferirsi altrove; lui l’avrebbe abbandonata per sempre. Era inchiodato a letto da tempo, consumato dalla tubercolosi. La mamma lo accudiva come un figlio, non lo lasciava mai. Lei era quasi gelosa di questo attaccamento fra i suoi genitori, nonostante li amasse moltissimo. Si sentiva trascurata, dormiva nel piccolo lettino distante dal loro, in quella stanza che ai suoi occhi appariva enorme. Abitavano in una grande casa, divisa in parti tra parenti. La loro era composta da un’ampia cucina, al pian terreno, che dava all’esterno, e da una camera da letto che dividevano in tre. I mobili di casa, i letti, gli armadi, il grande tavolo di rovere della cucina, il delizioso comò della stanza da letto, li aveva costruiti il suo papà quando stava bene e faceva il falegname. La mamma si occupava della casa con tale dedizione che il pavimento di legno della cucina era sempre splendente. Preparava i pasti, se li inventava, con le poche cose che riuscivano a comperare con la tessera oppure a credito. Il momento più bello della giornata era quando si impastava il pane e la mamma friggeva alcuni pezzetti di pasta nello strutto, poi li cospargeva con poco zucchero. Era l’unico dolce che la bambina mangiava di quei tempi.
Il vento soffiava forte, la bimba si stringeva nel cappotto, mentre il cielo grigio si faceva minaccioso. I genitori della sua amica stavano sbarrando le porte e le finestre di casa con assi di legno; il rumore del martello echeggiava in tutto l’abitato. Il giorno prima le due bambine trascorsero il pomeriggio assieme, come facevano abitualmente. Però c’era qualcosa di anomalo in quell’incontro, qualcosa di cupo. La bambina sfoggiava il cappotto nuovo con orgoglio davanti all’amica, ma questa sembrava distante, come se non fosse presente. Sapevano che tra breve si sarebbero dette addio, così avevano deciso i genitori. Una sarebbe partita, l’altra sarebbe rimasta lì. Entrambe comprendevano a stento le decisioni dei grandi, ad ogni modo non ne furono rese minimamente partecipi. Capivano soltanto che la loro vita, da quel momento, sarebbe stata un’incognita. La bambina che partiva sarebbe finita chissà dove in Italia, in un anonimo campo profughi, fatto di baracche di legno, dove avrebbe convissuto con tanti estranei. Avrebbe assaporato il gusto amaro dell’esilio forzato, l’umiliazione di essere una persona senza patria, sradicata e sbattuta in un luogo sconosciuto e spesso ostile. Non l’aspettava un futuro sereno, una vita confortevole. Lottare giorno dopo giorno per costruire qualcosa dal niente, questo l’attendeva, con il peso di un passato opprimente e l’incomprensione delle persone che mai avrebbero capito il suo dolore. L’altra invece avrebbe subito un destino anche peggiore, sarebbe stata un’estranea a casa sua, sgradita ai nuovi padroni della sua terra, che a stento tolleravano la presenza di coloro che vi erano nati. La sua sarebbe stata una vita caratterizzata da patimenti, dalla miseria all’emarginazione, dalla paura del regime all’angoscia di vedere tutti i sogni infranti. E se ciò non bastasse anche la frattura con la sua gente, con coloro che se ne stavano andando e avrebbero guardato con ostilità a quelli come lei, definendoli “traditori”.
Il camion era carico, la casa chiusa, la stalla vuota. La bambina osservò il mezzo che iniziava a muoversi e i suoi vicini salire nell’abitacolo assieme all’autista. Mentre si stavano allontanando vide dal finestrino la mano della sua amica salutarla, prima piano, poi energicamente, come se cercasse un contatto, un appiglio per non andarsene. Lei non riusciva a pensare ad un addio, ad uno strappo definitivo. Era solo una situazione momentanea, tra breve sarebbero tornati tutti, così pensava, oppure suo padre sarebbe guarito e l’avrebbe portata via.
Quella notte nevicò, il paese di case grigie si ricoprì di bianca neve. Al mattino la quiete del borgo imbiancato mise la bambina di buon umore. Però quando uscì per giocare vide che era sola, i suoi amici non c’erano più, il paese era spettrale. Allora sentì un brivido su tutto il corpo, si strinse di più nel cappotto, ma il freddo non passò. Uscì dal paese, si diresse verso i campi. Iniziò a correre, sentì la terra ghiacciata scricchiolare sotto ai piedi, le scarpe inzupparsi d’acqua per via della neve. Il vento sferzava il suo viso, arrossandole le guance, solcate ora da lacrime. Cominciò a risalire un colle, ricoperto da vigneti; inciampava di tanto in tanto, sui sassi nascosti dalla neve, oppure sulle sterpaglie. Anche il cappotto rosso si stava inzuppando, rischiava pure di strapparsi su qualche vecchio rovo, ma a lei non importava granché. Fu allora che fece per la prima volta i conti con la solitudine, con la triste condizione che da quel momento l’avrebbe accompagnata per tutta l’infanzia.
Gli anni passarono, la bimba crebbe. Visse nella povera casa di campagna assieme a sua madre; suo padre morì l’inverno dell’esodo, della prima grande ondata. Imparò a fare la sarta, lavorò sempre e non conquistò nulla, non le rimase niente se non la povertà.
Si sposò molto giovane, con un ragazzo anche più povero di lei. Assieme lavorarono, lottarono, si inventarono mille mestieri per campare. Lei era sempre insoddisfatta, non possedeva niente a parte quella vecchia casa e il desiderio di migliorare economicamente rimase un sogno. Poi, dopo molti anni, arrivarono i figli, quasi inaspettatamente. Fu una gioia, ma durò poco. In breve capì che stava crescendo dei bambini infelici, intrappolati in un paese allo sfascio, senza futuro, in una dittatura agonizzante che gli aveva insegnato solo l’odio. Così, a cinquant’anni, si rimise in discussione. Lasciò tutto, abbandonò la vecchia casa grigia e se ne andò in Italia, portando con sé i figli. L’occidente non era quel posto meraviglioso che si vedeva nelle pubblicità, quel mondo patinato dove il benessere economico garantiva la felicità a tutti. Lei questo splendido mondo non lo ritrovò nel tugurio umido che aveva affittato, in un quartiere degradato della città. Fece la serva a casa di una donna arrogante, una finta “signora”, una borghese per autodefinizione, che non perdeva occasione di umiliarla. Si spezzò la schiena dalla fatica, facendo anche due-tre lavori pur di ottenere finalmente qualcosa, pur di vedere un qualche risultato, sentendosi spesso dire dalla gente “ecco, voi dell’est, venite in Italia a rubarci il lavoro”. Non la fermò nessuna umiliazione, nessun ostacolo bloccò la sua avanzata. Negli anni, la bambina col cappotto rosso, diventò una donna determinata, con tutte le sue fragilità ben nascoste per non sembrare vulnerabile, incapace di stancarsi di lottare e ossessionata dal miglioramento. Adesso è una signora matura, lavora ancora, forse non smetterà mai, finalmente però ha ottenuto quel benessere, quella soddisfazione derivante dal possesso che aveva inseguito tutta la vita. Guardandosi indietro vede ancora la bambina che era, ma non prova nostalgia. Dice che per tutto l’oro del mondo non vorrebbe tornare ad essere giovane, e che la sua vita, in fondo, non ha avuto molto senso. Spesso la osservo, indaffarata, presa dalle sue mille faccende e mi chiedo se c’è qualcosa che ci lega. Le diversità e le incomprensioni tra noi si sprecano, nonostante siamo madre e figlia. Poi mi rendo conto che il legame c’è, il vero legame, e non è il sangue.
Ricordo una sera d’estate, non so quanti anni fa, in Istria, nel nostro paese. Eravamo dietro la vecchia casa, risistemata con i suoi soldi sudati, io e lei da sole. Il tramonto sembrava un’esplosione, il sole rosso, come la nostra terra, contaminava e accendeva il cielo azzurro. Lo stavamo osservando insieme, senza parlare. Guardavamo al di là di quelle distese di terra e carso, dove le serpi si riscaldano sulle pietre roventi e l’uva matura al sole. I nostri sguardi si persero in un attimo che sapeva di eternità. Fu in quel momento, in quel preciso istante, che io ritrovai la bambina col cappotto rosso, mentre correva sui campi, nell’inverno della sua anima. Capii che lei viveva dentro di me, che eravamo la stessa cosa, che provavamo la stessa infelicità. Noi, gente di confine, sospesi tra un passato violento e un futuro incerto, potevamo sentirci a casa soltanto in attimi come questi, quando le parole non servono e i ricordi si incontrano, si intrecciano, in una terra che è nostra solo nell’immaginazione.