Il pane quotidiano
Il pane era l’alimento che non mancava mai nelle case istriane, un rituale vero e proprio che coinvolgeva la famiglia, dato che il grano si coltivava, si macinava e con la farina di casa si faceva il pane tutto l’anno. A casa mia il rito del pane era tra i più interessanti e laboriosi, iniziava la mattina presto. Le donne venivano lasciate sole durante la panificazione, persino mio zio Italo, detto Talico, fratello di mio nonno che viveva nella casa accanto alla nostra, non intralciava la moglie, zia Clementina, durante questo delicato momento, rinunciando alla sua comoda sdraio davanti al televisore. Ai miei tempi non si usava più il lievito madre, il pane si faceva con del normale lievito di birra, però di buona qualità. Nonna Eufemia si alzava presto tutte le mattine, del pranzo e del pane in particolare si occupava lei. Preparava la farina a fontana, scioglieva il lievito nel latte con l’aggiunta di un cucchiaio di zucchero. Poi impastava tutto, ammorbidito con lo strutto.
La pasta doveva lievitare almeno due volte, poi si facevano i filoncini oppure i panini che piacevano a me, i boboli (le lumache), e si cuocevano nel grande spargher nero (il forno a legna) che nonna Eufemia usava da quando era ragazza. Prima dell’avvento dello spargher nelle famiglie istriane il pane veniva cotto sul fogoler, il focolare antico, sulla pietra refrattaria coperto da una campana di ferro.
Un’usanza antica che mia nonna conosceva bene, era infatti in grado di aumentare e diminuire il calore a seconda delle esigenze di cottura. In un’ora il pane era pronto, altrettanto ci voleva per la pinza (il dolce pasquale) con però una maggiore attenzione al grado di calore della pietra refrattaria e delle braci. Raramente lo preparava in questo modo laborioso, aveva in casa una valida alternativa, però quando si accendeva il fuoco nella vecchia taverna qualche volta dava sfogo alla sua grande abilità. Da diverso tempo ho fatto mio il rituale del pane, dopo anni in cui lo compravo pronto e cuocerlo a casa era un’eventualità piuttosto rara. La maturità ha portato con sé diversi disturbi di salute ma per fortuna anche una maggiore saggezza. Così mi reco dai rivenditori giusti, acquisto delle splendide farine di grano antico, come quello coltivato dai miei nonni, le mescolo ad una modesta quantità di semola, e sempre con del buon lievito di birra preparo il pane quotidiano. Un rito laborioso che spesso mi impone la levata antidiluviana, lo sbadiglio alla fredda luce artificiale della cucina, le mani in pasta quando i galli sognano ancora. Eppure è un rito che mi dà gioia, serenità, specie quando il pane ben lievitato si cuoce nel forno di una modernissima cucina economica, sprigionando l’antico profumo di mia nonna Eufemia, dei campi di grano della mia infanzia, della farina fresca su una spianatoia di legno. La croccantezza e l’aroma del pane appena cotto, quel caldo abbraccio che avvolge il cuore, per me è il ricordo di un mondo lontano che non posso fare a meno di evocare.