Quando la campagna sussurra
Nelle corte giornate di fine dicembre e inizio gennaio, trascorro un po’ di tempo nella casa natale di Stridone. Seduta alla scrivania di legno pallido con una lampada minimalista, dai colori naturali, che illumina di luce soffusa la grande stanza coi mobili antichi, osservo il panorama dalla finestra. La visuale apre sulla natura selvaggia, il muretto a secco, le montagne in lontananza, la valle del Brazzana ormai nella penombra crepuscolare.
Una giornata trascorsa all’insegna della semplicità, dell’essenzialità; il fuoco da accendere la mattina nello spargher che scalda la cucina, l’acqua della caldaia, la piastra di ghisa e il forno dove preparare i pasti, come si faceva una volta, secoli fa. Poi una passeggiata con i cani dietro la casa, tra le rocce carsiche e le piante mediche cristallizzate dalla brina, accarezzata dall’aria pungente del Monte Maggiore che non è fredda come nella mia infanzia, però gela ugualmente le guance.
Un tè sorseggiato nel tinello del primo piano, dove a fatica ho riportato alla luce le travi antiche, il pavimento di legno che fece mio nonno e la magnifica scala in stile carnico. Il profumo della cera d’api si mescola a quello della stufa che riscalda gli ambienti, all’aroma del tè speziato, degli incensi bruciati la sera prima. Le luci del grande albero di Natale, del presepe venuto da Napoli, di simboli arcaici in un angolo antico, mi fanno sentire privilegiata e fortunata. Riesco a vedere la bellezza grezza, pura, priva di sovrastrutture di una mattinata di nebbia, quando la valle è sommersa da una coltre ovattata d’inconsistente biancore, i picchi dei monti emergono come isole in un mare biancastro e i borghi appaiono inglobati in un’alba da incantesimo.
Esiste una magia evidente nella purezza degli elementi naturali, nei boschi sempreverdi e negli alberi spogli, nell’erba arsa dal gelo, nei sentieri battuti dagli animali, nel volo dei rapaci nelle giornate di nebbia, nei colori artici che a volte il sole invernale regala. Saper cogliere questa magia è un’arte innata in chi nasce, vive e si nutre tra questi elementi naturali, li conserva nell’anima anche dopo anni che se ne è allontanato, li cela dietro abitudini di vita comode acquisite nel tempo. Le giornate invernali sono scandite da ritmi precisi che necessitano di regole rigide. Il sole sorge tardi e tramonta presto, quindi occorre sfruttare le ore di luce per provvedere alla legna, alle faccende di casa, ai lavori di pulizia negli orti e intorno alle abitazioni. Dopopranzo la luce inizia ad affievolirsi, a farsi dorata, e in poco tempo il sole comincia a tramontare. L’ombra della luna, pallidissima, appare nel cielo e il giorno di luce giunge alla fine. L’aria della sera si fa fredda e in campagna il silenzio è totale.
La brevità della vita diventa evidente in giornate come queste, in luoghi silenziosi e quasi disabitati, dove la natura incontra sempre meno gli ostacoli dell’uomo. Eppure è qui che io mi sento viva, reale, schietta, libera dalle convenzioni e con la sensazione che il tempo non sia finito. In un luogo come Stridone, ma potrebbe essere anche in Carnia o nelle campagne della Toscana che tanto amo, non temo il giudizio altrui e non mi faccio scrupoli a dire di “no” senza mezzi termini. Di norma, negli anni della maturità, il giudizio degli altri ha sempre meno valore e i “no” detti e ridetti superano di gran lunga i “sì”, tuttavia qui nella rigidità dei monti carsici della mia infanzia, diventa estremamente chiaro quanto sia salutare il diniego e il disinteresse per i giudizi del prossimo. Non si tratta di menefreghismo, tutt’altro. Con gli anni si impara a distinguere un giudizio sincero, una critica sensata, dalla moltitudine di squallide affermazioni dette e scritte, in modo più o meno subdolo, per farci star male e ferirci, nel punto dove siamo vulnerabili. Perché tutti, diffamatori e diffamati, critici e criticati, abbiamo un tallone d’Achille che fa emergere le nostre fragilità. La natura selvaggia che osservo mentre scrivo, mi ha sempre insegnato una cosa preziosa: un essere ferito, danneggiato, può sopravvivere se impara a contare solo su se stesso. Eppure negli anni di vita in città, in occidente, ho dimenticato questa preziosa lezione e di qualcuno, ahimè, mi sono fidata fin troppo. Ho imparato a leccarmi le ferite, come fanno gli animali, ad anestetizzare il senso di tradimento e di delusione che inevitabilmente si prova, poi sono ritornata qui, tra i massi, gli arbusti, i sentieri, a ritrovare il vecchio insegnamento. In questo posto dimenticato dagli uomini, e immagino amato da Dio, ho scorto la via da seguire, ricordando le difficoltà della vita in una campagna ardua da piegare, dove la frugalità è l’essenziale per andare avanti. Le piccole cose che fanno grande la mia casa mi riempiono di serenità e di speranza, come se i miei avi che qui sono nati, vissuti e morti, mi accarezzassero lievemente il capo, rincuorandomi e incitandomi a vivere come desidero, facendo fatica sì, però senza l’obbligo di ringraziare nessuno. Hanno costruito questa casa nella seconda metà del Settecento, con le loro mani di uomini di montagna, venuti dalla Carnia per fare i tessitori in una terra da addomesticare.
Mi hanno lasciato in eredità molte conoscenze e un forte legame che sento fino alle viscere con le Alpi che vedo in lontananza, da dove proviene una parte dei geni che compongono il mio essere. Così mi rintano nella stanza più antica della casa (datata 1773) che è un piccolo regno dove scrivere, ascoltare musica, riposare e guardare il panorama dalla finestra che dà sulla roccia, i noci spogli e la valle in fondo al monte. I mazzi di lavanda posati acconto ai vetri, colti in piena estate, sprigionano ancora un po’ del loro profumo, mentre il bollitore del tè è sempre pronto per darmi il calore e l’aroma dei sapori invernali. Tra pochi giorni ritornerò alla mia consueta vita, ben più comoda ma infinitamente più rumorosa, caotica, piena di cose tutto sommato non essenziali. Mi sarà difficile sentire i suggerimenti portati dal vento, dal volo degli uccelli, dalla staticità poderosa degli alberi, dalle nebbie che si diradano al sole, dai crepuscoli che narrano storie antiche. Eppure so che gli insegnamenti della natura ora sono chiari nella mia mente, come se gli ultimi anni avessero operato una rivoluzione, dandomi la possibilità di ritornare ai rituali antichi, all’essenziale, per riuscire a superare traumi e delusioni, soprattutto per difendermi dal mondo degli uomini di cui mai più mi fiderò.
Quando a febbraio tornerò per vangare l’orto, tagliare le siepi, potare alcuni alberi, per fare i tanti lavori di fatica che qui sono necessari, avrò già iniziato un nuovo percorso che mi sono prefissata. Allora il vento, il bosco, le montagne, mi diranno se sono sulla strada giusta, se sto lavorando bene, se seguo i loro consigli. Mi ci sono voluti anni, una vita intera, per imparare nuovamente ad ascoltare in silenzio ciò che la natura non ha mai smesso di suggerirmi, con generosità, senza mai tradirmi o pugnalarmi alle spalle. Ecco, auguro a tutti di ritornare alle radici della propria natura, fosse anche per smontare tutto e azzerare il passato, per ricominciare una volta ancora, senza ripensamenti, pur avendo qualche ruga e qualche acciacco che il tempo ha lasciato in eredità. Non è mai troppo tardi per ascoltare il canto degli uccelli, il fischio del vento, per un’alba di nebbie e di brina che con il loro gelido tocco risvegliano l’essere fin troppo assopito. La natura è una madre generosa, giusta, anche crudele quando serve, ed è la genitrice che può mostrarci la via, il modo per guarire le ferite e tornare ad essere pienamente noi stessi.
Il fuoco si sta spegnendo, la vita mi chiama, lascio questo scritto mentre la notte cala e le luci dei paesi oltre la valle si accendono: siate spiriti legati alla terra che ambiscono alle stelle.