Su un colle, in mezzo alla valle superiore del fiume Quieto, in cima ad una fertile conca, riparata dal ciglione carsico, sorge Pinguente. Sono sempre stata legata a questo borgo medievale – dal sapore indiscutibilmente veneto che per certi versi ricorda anche Orvieto – da quando i miei occhi hanno imparato a cercarlo dall’altra parte della valle. Pochi luoghi in Istria possono competere con questa cittadina per la bellezza panoramica e per la quantità di memorie storiche. Il colle, una roccia di arenaria che si erige per diversi metri sopra il fondovalle, ospita il borgo che sembra sorto dalla cruda pietra, come per un incantesimo; la città è fortificata, circondata da mura, sorvegliata dall’alto campanile.
La valle sottostante si unisce a quella del fiume Quieto, un incrocio cruciale attraverso il quale vi accedevano dal mare sia i Romani che i Veneziani. La valle cinge il colle di Pinguente con, da un lato, il torrente Malacuba che sgorga sotto Cernizza, da un altro il torrente Recizza che si riversa nel Quieto che qui inizia il suo vero corso. Dalla cima di Pinguente lo sguardo spazia dal Monte Maggiore, a Sterpeto, alla Ciciaria; si vedono pendici boscose, verdi colline, pianure coltivate e le formazioni calcaree dei monti di Milino (Mlun) che formano le Porte di Ferro, attraverso le quali il Quieto entra nella valle di Montona. L’antica cittadina conta ben 4 mila anni di storia, eppure vi si accede da un’unica strada che per millenni con i suoi tornanti ha condotto nel Castrum. Passa davanti al cimitero di S. Vito, dove uno slargo ospita un grande parcheggio che vi consiglio di utilizzare per la macchina, per poi continuare la salita a piedi. Vi è anche una scala che conduce attraverso cortili, stradine, orti nel cuore storico della città.
Si giunge così alla Porta Grande, datata 1547 e costruita dai Veneziani, con un arco a tutto sesto e un cornicione soprastante. Vi è una mescolanza di edifici ottocenteschi, di case basse medievali, di mura massicce, orti incastonati tra la roccia e le case, camminamenti antichi, panchine perse nel tempo, resti di storie arcaiche nel lapidario, vicoli lastricati in epoche remote.
Si trovano locande, piccoli negozi, qualche artigiano e locali che non ti aspetti, originali fin dall’esterno, come il Melody bar dove si può sorseggiare un tè profumato nella città millenaria.
Giunti in cima ci si ritrova nella piazza principale, dove sorge il Duomo settecentesco dedicato all’Assunzione al Cielo di Maria, accanto ad esso il campanile alto ben 26 metri, edificato nel 1897.
I palazzi che circondano il Duomo erano sedi istituzionali importanti, oppure abitazioni della nobiltà. Il Duomo del 1784 fu costruito su progetto dell’architetto Filippo Dongetti. Sulla parete esterna dell’abside è murata una lapide raffigurante S. Giorgio che uccide il drago, con in alto le iniziali del capitano di Raspo Pasquale Cicogna. L’interno della chiesa contiene, oltre a quello principale, altri sei altari posti nelle loro nicchie.
Sulla mensola dell’altare del Crocifisso si custodiscono, in una cassetta con la fronte in vetro, le reliquie di diversi santi. Il dipinto dietro l’altare principale è opera di Girolamo Corner. In piazza si possono ammirare, tra gli altri, il palazzo Pretorio e il palazzo dei conti Verzi, sul quale sono infissi il loro stemma e un’iscrizione del 1629 (ritroveremo ancora questa famiglia nel racconto). Sull’edificio a sinistra del Duomo, ovvero la casa del Capitano di Raspo, si trovano quattro stemmi riguardanti i Trevisan, i Donato, i Marcello e gli Erizzo. L’altra porta della città, la Porta Piccola, presenta nella chiave di volta lo stemma e l’iscrizione del 1592 che ricorda il capitano di Raspo Carlo Salamon, di antica famiglia salernitana. Il foro ad arco a tutto sesto della porta è ricavato nella possente muratura, sopra di essa una finestrella permetteva di buttare pece e olio bollente sugli eventuali aggressori.
Fuori dalla porta, scendendo a sinistra, si incontra una cisterna pubblica che sulla vera da pozzo presenta un leone veneziano del 1563. Vi è anche un’altra cisterna, molto più grande, in una piazzetta, restaurata e ampliata nel 1789 dal “prefetto” di Raspo Marcantonio Trevisan. Di questa fontana e della chiesa di S. Giorgio, oltre che del Museo Civico e del Belvedere da ritrarre in primavera e dell’imponente Acquedotto istriano parlerò nella prossima puntata, sperando di poter fotografare gli interni degli edifici e di raccontare con immagini e parole altri luoghi di Pinguente. Il Museo ha sede nel palazzo Bigatto, un edificio barocco di tre piani, costruito sulla roccia viva; vi si trovano reperti preistorici, romani e medievali, inclusi alcuni blocchi di pietra con rilievi raffiguranti il dio Silvanus, le Ninfe, Cerere e Diana. Sul muraglione a sinistra dell’edificio si trova la cassetta in pietra del 1755 dove venivano depositate le denunce segrete contro i danneggiatori dei boschi della provincia.
Un altro interessante edificio è il Fondaco veneto del XVI secolo, il magazzino pubblico per granaglie e farine. La facciata del fondaco presenta stemmi gentilizi dei Bon di Bologna, dei Pizzamano e dei Bondumier, venuti presumibilmente da Acri. In una delle iscrizioni si legge che il palazzotto fu restaurato nel 1638 e poi rinnovato nel 1900 dalla famiglia Crevato.
Ora, a grandi linee, la storia della città. Dedicherò a Pinguente racconti, articoli e forse anche un romanzo, per ora mi limito a raccontarvi alcuni punti salienti della sua straordinaria storia. Pinguente è sicuramente uno dei luoghi più antichi dell’Istria interna, fu certamente un castelliere preistorico. Il geografo greco Tolomeo (100 d.C. – 175 d.C. circa) la chiama Piquentòi, fu infatti un antico abitato dei Celti Subocrini come testimonia il suo nome, a detta di molti storici. I Celti usarono questa straordinaria conca fertile per costruirvi il loro castelliere e gli insediamenti. Nei pressi di Pinguente, nella grotta Silvanus, l’archeologo Alberto Puschi (1853 – 1922) trovò degli oggetti che paragonò ai reperti ritrovati nelle tombe di Keszthely in Ungheria (6 mila sepolture del V – IX secolo nei pressi del lago Balaton). Una leggenda narrava che Pinguente era la dimora di semidei e giganti, un ricordo antico delle culture precristiane. Pinguente fu la prima importante fortezza dei Romani in quest’area e la chiamavano Pinguentum. Divenne municipio con una notevole autonomia che amministrava la vasta area circostante in cui si installarono numerose colonie. Si dice infatti che il nome Ciceria derivi dai coloni ciociari che qui si trasferirono. Dei tempi romani rimangono molte iscrizioni, di particolare interesse quella ad opera del sacerdote di origine etrusca Lucio Ventinaris Lucumo. Questi la dedico alla dea della salute per aver preservato da un’epidemia i pinguentini. Nella valle erano molto venerate le ninfe e il dio Silvanus, divinità di origine etrusca, protettore della natura e delle attività agresti: si sono rinvenute infatti molte tavole votive ad essi dedicate. Tanti di questi culti si sono tramandati fino ai tempi moderni e alcuni li ricordo bene. Ad esempio, fare un banchetto dopo il funerale di un congiunto estinto o, nel mese di maggio, accendere fuochi: un uso romano in onore della dea Cerere o il Calendimaggio di origine celtica. Alla fine degli anni Settanta, nella zona denominata Fontana, alla base della conca, vennero alla luce delle tombe di epoca romana. Si recuperarono are e lapidi ornamentali, anche una trulla di vetro molto rara (D. Alberi, Istria, storia, arte, cultura, Lint ed.). La trulla era una specie di mestolo per attingere i liquidi dalla zuppiera, tuttavia quella vitrea era molto raffinata e aveva un altro uso: serviva a versare il vino nei bicchieri. Sul versante occidentale del monte si fecero molti scavi archeologici che portarono alla luce oggetti altomedievali, inclusa la tomba di un cavaliere longobardo. Fu ritrovata un’importante necropoli, dei Longobardi e Bizantini che si susseguirono nei secoli VII e VIII: furono rinvenuti orecchini, spille e collane. Alla caduta dell’impero romano la gente italica si rifugiò a Pinguente, lasciando le campagne dell’area pedemontana abbandonate; in breve la natura si riprese i suoi spazi e ricoprì tutto di folte foreste, abitate da caprioli, cinghiali, lepri, volpi, tassi, faine e gatti selvatici. Molti di questi animali non hanno mai lasciato la zona, pur essendo braccati tuttora dai cacciatori. Nel VI secolo la città divenne dominio di Bisanzio; nel 610 e 611, al tempo dell’imperatore d’oriente Flavio Eraclio (575 – 641), riuscì a resistere, grazie alle sue notevoli fortificazioni, agli assalti degli Slavi chiamati da Agilufo, re longobardo in guerra con Bisanzio, che misero il territorio a ferro e fuoco. Alla fine dell’VIII secolo Pinguente fu occupata dai Franchi di Carlo Magno (742 – 814), dominio che creò molti problemi. Infatti Pinguente risulta nel “Placito del Risano”, risalente all’804, dove molti notabili (tra cui dieci pinguentini) lamentavano l’usurpazione di terre e beni da parte dei coloni slavi, permesse dal duca della corte carolingia Giovanni. Dopo l’anno Mille Pinguente passò ai nobili tedeschi di Weimar che però la donarono alla Chiesa di Aquileia, attraverso le volontà del marchese d’Istria Volrico e della di lui consorte Adelaide, nel 1102, assieme ai castelli vicini: il nome risulta essere Castrum Pinguent. Da allora divenne caposaldo del Patriarcato in Istria, fino al termine del potere secolare di Aquileia, nel 1420.
Del borgo si occupavano i gastaldi, detti Righter, uomini d’arme incaricati di raccogliere i tributi, di amministrare la giustizia e proteggere i confini montani. Nel 1251 il patriarca Montelongo concesse a Capodistria il governo della città e fu anche la sede dove si firmò la pace tra Aquileia e i conti di Gorizia. Purtroppo la tregua durò poco e le ostilità ripresero, Pinguente fu attaccata e danneggiata dal conte di Gorizia Alberto II. Presumibilmente fu allora che venne distrutta la famosa torre a guardia della porta principale (1267 o 1268). Nel 1405 la città fece un’alleanza con Rozzo, Colmo, Socerga, Nugla e Marcenigla contro il marchese d’Istria. Tuttavia nel 1421 Pinguente si dovette arrendere alle truppe veneziane guidate da Taddeo d’Este, dopo che il generale Arcelli aveva già occupato i possedimenti aquileiesi di tutte le località istriane a loro rimaste. La città torna ad essere strategica, infatti le si affida la difesa di un vasto territorio dalle invasioni turche del XV secolo, così quando gli Ottomani cercarono di assaltare il borgo, furono respinti con successo dai difensori. Dopo la distruzione del castello di Raspo, da parte degli arciducali del conte Cristoforo Frangipane (1482 – 1527), i Veneziani decisero di spostare a Pinguente il comandante militare veneziano dell’Istria che continuò a chiamarsi “Capitano di Raspo”. Il capitano poteva contare su 40 cavalieri e 30 mezzi di artiglieria; vennero inoltre rinnovate le mura e le opere di fortificazione.
Pinguente nel XV secolo formò il suo Comune e compilò i suoi statuti; furono presi provvedimenti per la conservazione dei boschi che la popolazione era tenuta a rispettare. La città subì molti attacchi dagli imperiali austriaci di Pisino, difese strenuamente i possedimenti per mezzo dei castelli di Rozzo, Colmo, Draguccio, Vetta e Sovignacco. A metà del ‘500 Venezia introdusse nelle campagne martoriate dalle guerre famiglie di slavi Morlacchi, in fuga dai Turchi. Nel 1614 arrivarono gli Uscocchi, i famigerati pirati di Segna, al soldo dell’Austria. Incendiavano i villaggi e rubavano ogni bene ai contadini, poi trovavano rifugio presso il castello di Lupogliano. Fu allora che Pinguente si munì di un grande baluardo formato da cancelli di legno. Nel 1616 il conte pinguentino Verzo Verzi e i suoi figli, attaccarono con la cavalleria le bande uscocche che si diedero alla fuga, rifugiandosi a Lupogliano. Nel 1617, dopo la guerra di Gradisca tra l’Austria e Venezia, si firmò la pace di Madrid e il territorio pinguentino godette finalmente di un periodo di tranquillità: si ritornò a coltivare i campi, ad allevare il bestiame e pare, nel ‘700, si aprì anche un lanificio. Qui si confezionava industrialmente il panno “griso”, un filato grezzo ricavato dalla lana di pecore. A ciò si lega anche la mia storia personale, fu infatti in questo periodo che i miei avi materni, i Punis, arrivarono da Tolmezzo a Stridone, con i loro telai, per lavorare precisamente il griso. Nel XIX secolo e nei primi decenni del secolo scorso, vendevano il tessuto ai pastori della Ciceria che vestivano in quel modo. Con la caduta della Repubblica nel 1797, la città passò all’Austria; dopo una breve parentesi napoleonica (1806 – 1813), nel 1815 il distretto di Pinguente fu aggregato al circolo di Trieste.
Nella prossima puntata, come promesso, ci saranno nuove foto, un approfondimento della mitologia precristiana e dell’Acquedotto sorto su un’antica sorgente di acqua minerale.
Fonti consultate:
D. Alberi, Istria – storia, arte, cultura, Lint Ed.
L. Parentin, Incontri con l’Istria, la sua storia e la sua gente, Centro Culturale Gian Rinaldo Carli
L. Foscan, I castelli medioevali dell’Istria, Italo Svevo Ed.
AA.VV, Storia politica universale, De Agostini Ed.
Guida storico – artistica Istria, Cherso, Lussino, Bruno Fachin Ed.
Il Placito del Risano, Storicamente – Laboratorio di storia, Università di Bologna.