I dilemmi dello scrittore
A inizio gennaio sono stata intervista dalla Rai regionale, nel programma radiofonico “Sconfinamenti”. In quell’occasione la conduttrice mi chiese quanto sia stato difficile il percorso compiuto finora, con ben dieci libri all’attivo, quali scelte ho dovuto fare e a cosa ho rinunciato. Non è stato facile riassumere in poche frasi, nell’arco di un’intervista, dieci anni di ricerche e di lavoro, di libri molto diversi e della creazione di uno stile mio, caratterizzante. Ho risposto sottolineando alcuni punti essenziali, però il discorso è ben più complesso. Scrivere un libro è paradossalmente l’aspetto meno faticoso, se proprio vogliamo dirla tutta. Chi ama questo lavoro ha generalmente predisposizione, quindi gli argomenti si trovano con facilità e quando un pensiero deve passare dall’immaginazione alla parola scritta, il meccanismo è del tutto naturale. Il difficile arriva dopo, ovvero nel momento in cui si deve trovare un editore non troppo disonesto, preoccuparsi che il lavoro non venga snaturato dall’editor, discutere e insistere affinché il libro possa avere la promozione necessaria per farlo conoscere. Sono passaggi obbligati molto difficili, snervanti e pieni di insidie, soprattutto per chi è alle prime armi. Quando si inizia una qualsiasi stesura, prima di mettere nero su bianco le proprie idee e la propria creatività, va precisato un punto essenziale dal quale nessuno può prescindere: il mercato governa ogni cosa, inclusa la distribuzione dei libri. Fin dalla fine dell’Ottocento si è compreso che la letteratura, come qualsiasi altra forma d’arte, era trattata alla stregua di un prodotto e immessa sul mercato come tutto il resto. La corrente decadentista della letteratura partì proprio da questo presupposto, per ribellarvisi, lasciandoci pagine memorabili di riflessioni amare sulla condizione degli scrittori. Inutile nascondere o edulcorare la nostra posizione nella società, sia che siamo poco conosciuti o famosi: la nostra condizione è quella di chiunque proponga un prodotto nuovo per confrontarsi nel mercato con tutti gli altri. Questo significa che il libro vale se vende, ovvero se è abbastanza interessante e accattivante da spingere i lettori a scomodarsi per comprarlo in libreria oppure ordinarlo on line (come si fa ormai comunemente), spendere dei soldi per averlo e trovare del tempo per leggerlo. Non sono cose da poco in una società con sempre meno tempo, così si dice, da dedicare alle attività culturali ma sufficiente per i social network, i videogiochi, Netflix e quant’altro. La mia non è necessariamente una critica, i social li uso anch’io e la smart tv è stato un ottimo acquisto, tuttavia la lettura, per la maggior parte delle persone, ha perso da tempo il suo fascino. La conseguenza è che lo scrittore deve intercettare i gusti dei non molti lettori che ancora sopravvivono, trovando il modo giusto per veicolare gli argomenti regalando emozioni o spunti di riflessione che lascino in chi legge la curiosità di continuare a seguire l’autore. In pratica quello dello scrittore è un lavoro vero e proprio, piuttosto faticoso e spesso poco pagato. Nulla di troppo allettante, insomma. Quando ho iniziato a scrivere facevo tanti lavori più o meno gratificanti per mantenermi e portare avanti le mie idee, oggi vivo una situazione ben più serena, nella quale non mi manca niente e posso dedicare molte energie alla scrittura. Per chi non avesse la mia momentanea fortuna, la via della scrittura è solo più lenta, avendo meno tempo, ma i risultati si ottengono comunque. L’importante è sapere ciò che si vuole realmente, avere chiare le idee su cui lavorare, poi se la predisposizione c’è, il resto arriva. Come hanno già scritto in tanti prima di me, uno scrittore non deve mai affidarsi agli editori che chiedono soldi, per nessun motivo: quelli non sono editori, sono dei furbastri che cercano denaro facile accarezzando l’ego di chi vuole vedere il proprio nome su un libro. Se il lavoro vale, se può essere messo sul mercato, allora sarà l’editore a spendere dei soldi, non viceversa: si chiama rischio d’impresa. Un editore vero, anche se piccolo, è colui che garantisce la vendita dei libri nelle librerie tradizionali e on line, facendo al contempo anche la pubblicità prima dell’uscita. Dei dieci libri che ho pubblicato, tutti sono stati in vendita nelle librerie tradizionali e non, e quelli non esauriti lo sono ancora, sui principali siti e-commerce noti a ognuno di noi.
Non serve a niente, lo dico con cognizione di causa, pubblicare con le associazioni o con gli enti se si desidera farsi conoscere. Capisco che l’ebbrezza di un volume con il proprio nome è una piacevole esperienza, ma se questo volume non sarà presente sulla piattaforma di Bezos, la sua utilità a livello pratico sarà nulla. Ci sono molte persone oramai in pensione che trovano nella scrittura un modo per mantenersi attive, avere degli scopi e uno svago di alto livello, però se chi scrive è una persona che mette anima e corpo in questa attività, non può accontentarsi della citazione sul giornaletto di nicchia e della presentazione con quattro gatti assonnati. Una giovane scrittrice mi ha scritto qualche giorno fa, l’ho trovata entusiasta e piena di idee. Mi ha chiesto cosa ne pensavo dei concorsi letterari, delle tante iniziative che invitano gli autori a inviare scritti inediti: lei ha del materiale e vorrebbe parteciparvi. Le ho risposto che personalmente non vi ho mai partecipato né ho intenzione di farlo in futuro, a meno che non si tratti di concorsi prestigiosi e noti. Infatti anche il concorso è un modo per accarezzare l’ego, a volte sborsando pure un bel po’ di denaro, senza ottenere niente. Come sottolinea la nota editor ed esperta del settore Chiara Beretta Mazzotta sul blog BookBlister, a parte i famosi concorsi con un premio in denaro e un’esposizione mediatica eccellente, tutto il resto è pressoché inutile. Ci sono moltitudini di concorsi in ogni Regione, vanno dalla poesia ai libri di cucina; non hanno nessun ufficio stampa, niente sponsor, zero premi in denaro, nessuna visibilità. A cosa servono? Nel peggiore dei casi ad intascare denaro dai partecipanti, negli altri casi a passare un premietto, una targhetta da dieci euro, di mano in mano. Si può essere anche autori eccellenti, con curriculum notevoli, ma a conti fatti è la vendita dei libri, lo ribadisco ancora una volta, l’unica cosa che conti veramente. A questo proposito voglio citare gli scrittori, saggisti e poeti della minoranza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia. Si tratta in molti casi di ottime penne, di talenti notevoli che però sono del tutto sconosciuti in Italia, pur essendo scrittori in lingua italiana. Durante gli anni della Jugoslavia chi scriveva doveva essere di provata fede comunista, fedele a Tito e alla “federativa”, gli scrittori ribelli correvano rischi seri, incluso quello di perdere la testa, letteralmente. Non ricevevano i diritti d’autore ma uno stipendio: di solito erano giornalisti o insegnanti. Finita quella fase, i loro scritti non sono stati più nazionalisti e celebrativi del passato regime, ciononostante hanno mostrato una notevole povertà nei temi ed è mancato il coraggio di rompere definitivamente col passato, proponendo una critica seria, sia storica che culturale. Tuttavia il problema principale era e rimane la scarsa diffusione, l’incapacità di proporre libri innovativi e di farlo altrove, fuori dal cortiletto di casa con quattro lettori, oltre a un’incapacità espansiva che si otterrebbe creando legami con le realtà editoriali italiane. Sono pochi gli autori della minoranza italiana conosciuti in Italia, fatte alcune eccezioni come la pluripremiata Nelida Milani (Sellerio) e Giacomo Scotti (Mursia), il restante è fatto di piccole pubblicazioni locali poco pubblicizzate e anche meno distribuite. Torno a ribadire che quando si scrive occorre pensare al mercato, contattare editori seri che propongono un contratto e assicurarsi della distribuzione. Poi diversificare, scrivere libri di vario genere, magari lavorare nell’editoria con mansioni più tecniche (come ho fatto io, imparando il mestiere); tutto ciò aiuta moltissimo ad aprire la mente e conoscere il pubblico. Sono orgogliosa delle guide storico-culturali, folcloristiche e culinarie che ho scritto, non solo perché sono state un successo ma perché ho imparato tanto. I romanzi sono la mia grande passione, tuttavia ne ho scritti due in tutto, in compenso ho avuto l’onore di curare la traduzione dal francese di un classico senza tempo, Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.
Negli ultimi tempi, poi, ho imparato il potere della rete, di internet, attraverso il quale la parola scritta arriva ovunque. Il mio è un sito culturale, dove si parla di scrittura, storia, tradizioni, viaggi, fitoterapia ma anche di cucina, pur non in chiave da ricettario o manuale. Non posso competere con i blog nati sulla scia di Chiara Ferragni o con quelli che raccontano come cucinare passo per passo. Mi distinguo anche dai siti di viaggio, non solo perché odio essere monotematica, ma anche perché quando racconto un luogo, una città, una Nazione, sento la necessità di parlare della sua storia e della sua cultura, non dei posti dove mangiare o alloggiare. Eppure ho i miei lettori, ai quali sono grata per le visite e anche per avermi fatto capire una cosa importante: non tutti si limitano alla superficialità e alla banalità dei temi, al consumismo e alla faciloneria di consigli inutili. Il mezzo di diffusione sul quale sto scrivendo ha colto finalmente la mia attenzione, il mio interesse, il mio impegno. Sono nata negli anni ’70, potrei essere la madre dei millennial ed ho impiegato un bel po’ di tempo per intuire le potenzialità dei mezzi che per questa generazione sono naturali.
Ora, la mia nuova consapevolezza sommata all’esperienza nel mondo editoriale, sono un punto di partenza per esplorare vie nuove, sentieri sconosciuti, senza la paura tipica dei vecchi di finire in un burrone: al massimo mi invento qualcos’altro. Sono sempre disponibile a condividere le mie esperienze con i giovani scrittori, dando qualche consiglio, se richiesto, sottolineando però un punto: ogni esperienza è un vissuto a sé, irripetibile e unico. La grande Oriana Fallaci diceva così: “Sono nata per essere uno scrittore e sarei stata uno scrittore anche se non avessi avuto le mani per scrivere”. Nessuna difficoltà, nessun dolore, nessuna delusione è sufficiente per smettere di scrivere