10 febbraio 2019
Le cavità carsiche, chiamate dagli istriani foibe, hanno sempre avuto un significato sinistro nell’immaginario popolare. Sono aperture nel terreno roccioso, a volte grandi, altre simili a fessure, che piombano nel vuoto. Si aprono come gole di giganti, fatte per ingoiare ogni cosa. Intorno all’apertura spesso cresce una fitta vegetazione, tanto che bisogna arrivarci sopra per notarla. La foiba ha un aspetto minaccioso per via del suo apparire insignificante, che invece cela il buio di uno spazio, di una grandezza non definita. Oltre l’apertura si spalanca la voragine, che si perde in cunicoli umidi e avvolti nella tenebra. Fin da bambina le ho sempre temute, pur non sapendo ancora l’uso che se ne era fatto decenni prima. Per me nella foiba ci finivano solo carogne di animali, immondizia, insomma le cose inutili. Mi spaventavano quelle strane gole, anche sporgendosi per guardarci dentro non si vedeva niente, era buio pesto. Da piccola andavo con mio fratello maggiore e i suoi amici a giocare nelle vicinanze di una di queste cavità. Nostra madre non lo sapeva, altrimenti ci avrebbe messi in castigo. Diceva sempre che le foibe sono pericolose, se ci si scivola dentro si muore nel peggiore dei modi, si finisce quasi all’inferno.
In effetti doveva essere così, perché, quando ci gettavamo dentro i sassi e allungavamo l’orecchio per sentirli toccare il fondo, li sentivamo solo sbattere contro la roccia e dopo il rumore si perdeva nel nulla. Se c’era il vento poi, da quelle gole uscivano lamenti inquietanti, di anime perdute negli inferi. A quell’età io potevo soltanto fantasticare sulle foibe, immaginarle abitate da spettri e da mostri terribili. Non potevo certo sospettare, nell’innocenza della mia percezione della realtà, che non tanto tempo prima, quando mia madre aveva la mia stessa età, in quelle buche non ci finivano le carogne di animali, ma i cristiani. Uomini, gettati dentro da altri uomini. Tratto da “Libera. Una storia istriana”, Gabriella Chmet (2007). Prossimamente sarà in commercio una riedizione del romanzo rivisitata.