Lo Scoop
“Si vis pacem, para bellum”
Il frastuono di artiglierie sulle colline, allarmi aerei, grida, invocazioni di aiuto. Nebulose di ricordi lontani, di campagne incolte, di latrati di cani, di spasmi infantili. La mente agitata, immersa in un dormiveglia abominevole di sudore e fastidio. Nello stomaco un mare in burrasca, fiumi di alcol che salgono su, fino alla gola, nauseanti, da soffocamento.
Fece uno sforzo sovrumano per aprire gli occhi, per sottrarsi al torpore intollerabile. Una voce di donna urlava in lontananza, pareva un animale al macello. Allora un sussulto affannoso lo strappò dal sonno, sbarrandogli gli occhi, obbligandolo a vedere. La luce fioca della stanza si insinuò negli occhi, colpì le pupille come una manciata di sale. Ascoltò i rumori in cerca della voce di donna. Niente, nessun grido, nessuna invocazione. Aveva sognato tutto. Fuori, nei corridoi dell’Holiday Inn,si udivano voci, chiacchiericcio, qualche risata. Si sollevò dal letto maleodorante, strisciò verso la finestra, trascinando con le gambe il corpo pesante e intorpidito. Tirò le tende gialline facendo penetrare la luce del tardo mattino, che si riversò copiosamente sul volto.
“Chissà che ora sarà?”, pensò. Gli venne in mente un racconto di Ivo Andrić, rimasto a lungo inedito. Diceva pressappoco così: a Sarajevo i differenti ordini, le differenti etnie, i differenti mondi, battevano la stessa ora in momenti diversi. Gli ortodossi, i cattolici, i musulmani, si distinguevano tra di loro anche nel calcolo delle ore. In Jugoslavia non si erano messi d’accordo nemmeno sul tempo.
“Sarajevo, sono ancora a Sarajevo”.
Udì qualcuno bussare alla porta, in modo poco convinto. Guardò la strada, c’era il solito via vai di mezzi dell’ONU, macchine governative, ambulanze. Udì nuovamente bussare, ora in modo più convinto.
“Chi è?”, gracchiò.
“Personale dell’albergo signor Perhat”, fece una voce maschile.
“Cosa vuole?”.
“Il signor Jelčić ha chiamato questa mattina, abbiamo provato a passarle la telefonata, ma lei non ha risposto”.
“Cosa voleva?”, chiese seccato.
“Chiamerà tra dieci minuti, si raccomanda che lei risponda. Come sa le linee telefoniche non sono sempre attive”.
“Va bene, grazie”. Gli capitava spesso di conversare con delle barriere tra lui e l’interlocutore. Barriere fisiche, barriere mentali, barriere emotive. Sul comodino attiguo al letto, c’era la bottiglia di šljivovica mezza vuota. Aveva bevuto solo quella o anche un’altra? Non lo ricordava. Strisciò in direzione del bagno, come una lumaca. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua gelida. Vi immerse prima il viso, poi tutta la testa. Quasi gli mancò l’aria, un brivido simile ad una scossa elettrica si propagò su tutto il corpo. Asciugò il volto e si guardò allo specchio, con compassata rassegnazione. La barba incolta, il viso arrossato, i biondi capelli che si diradavano sempre di più sulle tempie. Gli occhi circondati da infinite piccole rughe. Aveva trentotto anni, ma ne dimostrava dieci in più. Poi, come di consueto, si osservò le mani. Era questo un masochistico rituale quotidiano, guardare quelle mani tozze, contadine, congenitamente callose. Non c’erano dubbi, discendeva da generazioni di uomini che hanno lavorato curvi e con fatica i campi di un’Istria troppo lontana. Figlio di generazioni di donne che hanno partorito uomini destinati a zappare la terra, a morire di fame. Questo pensava, ogni singolo giorno della sua vita. Ricordava un’insegnante della scuola agraria che aveva frequentato a Parenzo, così tanti anni prima che gli sembrava un film. Era il primo della classe in croato, componeva i testi migliori: lucidi, senza fronzoli, senza sofismi. Quando lei gli chiese cosa avrebbe voluto fare nella vita, rispose senza esitare: “il giornalista”. Allora la “scrofa montenegrina”, così la chiamava, rise fragorosamente.
“Tu vorresti fare il giornalista con quelle mani da contadino?”, lo ridicolizzò davanti alla classe. Avrebbe voluto sbatterla per terra, strapparle lo chignon da vipera e sputarle in faccia. Invece non fece niente, non disse niente. Aveva ereditato dagli avi anche la rassegnazione oltre che le mani callose. Il giornalista poi aveva provato a farlo, anzi sembrava un talento promettente. In qualche modo però la montenegrina continuava a sghignazzare nella sua testa, come un presagio. Dopo anni di gavetta tra giornali e televisioni di Stato, non aveva uno straccio di contratto decente. Si definiva free lance, un giornalista indipendente e libero di andare ovunque, di documentare in autonomia. Diceva questo per nascondere la realtà, quella di un fallito alcolizzato, sul viale del tramonto. Il telefono squillò, un suono vibrante che lo riportò al momento presente. Il rumore dell’acqua, il telefono, le mani callose, le voci nel corridoio.
“Basta!”, urlò prima di sollevare il ricevitore.
“Finalmente ti sei degnato di rispondere”, ringhiò Jelčić dall’altra parte. Jelčić, il capo redattore di Tv Zagabria, il riferimento. L’uomo che avrebbe deciso del suo destino, delle future collaborazioni. Sì, il peggio del peggio, proprio lui. Lo ricordava seduto alla scrivania in disordine, con mille fogli sporcati da ditate di burro che colavano dai suoi fetidi panini. Un essere ripugnante, obeso, sudaticcio. Un ignorante assoluto, greto, volgare, insignificante. Aveva in mano tutta la redazione, era il direttore, col potere di decidere chi far lavorare e chi mandare via. Si detestavano a vicenda, tanto che lo aveva spedito lì, a Sarajevo, un mese prima, in cerca di qualche scoop di sangue e morte, da sbattere tra le notizie del telegiornale, per dipingere i serbi come carnefici e tutti gli altri come vittime. In realtà gli importava poco anche di questo, lui ci teneva soprattutto a fare un montaggio tale da rendere sconvolgente ogni singolo fotogramma.
“Portami bambini morti e donne stuprate, immagini angoscianti da far vedere a tutto il mondo”, gli aveva intimato prima che partisse. Della guerra in Bosnia non importava a nessuno in fondo, l’unica cosa che dava una scossa all’opinione pubblica erano le notizie di brutalità ed efferatezze perpetrate sugli innocenti. L’indignazione durava il tempo della messa in onda del servizio, per poi scomparire e disperdersi. In quei minuti però si poteva fare il “colpo”, come diceva Jelčić, si poteva diventare famosi persino per la CNN. Quindi si trovava nella capitale bosniaca, senza averlo deciso e nemmeno pensato fugacemente, a documentare un conflitto mediatico, compiuto con metodi e rancori antichi. Non aveva fatto alcuno scoop in oltre trenta giorni, nonostante quella fosse la città più pericolosa e turbolenta di mezzo mondo. Il tempo l’aveva trascorso soprattutto in albergo, tra coprifuoco ed allarmi che trasformavano Sarajevo in una città fantasma, vittima dell’assedio serbo e delle bande di criminali cittadine. Si attaccava alla bottiglia così spesso che il tempo era diventato fluido, si era dilatato a dismisura, tanto da fargli perdere la cognizione del suo scorrere.
“Sono settimane che stai lì a bighellonarti e non mi hai ancora portato niente di buono per montare un servizio. Pensare che solo un paio di giorni fa a Vareš c’è stato un massacro. Tu sei lì, a pochi chilometri, rintanato come un coniglio e non hai filmato niente!”, bofonchiò, con il boccone di cibo che gli impediva di pronunciare decentemente le frasi. Se lo stava immaginando, seduto alla scrivania mentre mangiava avidamente, come non avesse mai toccato cibo. Trovava l’immagine ripugnante, sentì lo stomaco rivoltarsi e non rispose.
“Mi ascolti!”, urlò dopo aver deglutito.
“Sì, la stavo ascoltando. Ho inviato del materiale, mi pare la scorsa settimana. C’era il filmato della collina con le artiglierie che sparano sulla città, l’intervista ad una donna che ha perso il figlio, colpito da un cecchino”, provò a spiegare confusamente, sentiva un mal di testa atroce.
“Non me ne frega niente delle artiglierie, dell’intervista alla donna! Sono cose che sanno tutti! Ti avevo chiesto una notizia inedita, uno scoop! Eri lì, lo potevi fare!”. La voce innaturale dell’uomo aveva un effetto d’estraniazione su di lui, gli sembrava che la mente si staccasse dal corpo e iniziasse una vita propria, lontana dalle discussioni sterili. La conseguenza era che Jelčić andava su tutte le furie ed iniziava ad apostrofarlo nei modi peggiori, succedeva quasi tutte le volte e ogni volta il suo destino precipitava sempre più in basso.
“Ti sei rimesso a bere vero? Sei sempre sfatto dall’alcol e non capisci niente, non fai niente?”.
“No, affatto”, rispose con voce annoiata.
“Non serve che ti giustifichi, so che sei un povero alcolizzato senza speranze. Però adesso sei lì, in Bosnia. Non ho altri da mandare e allora sono costretto a mandare te”.
“Mandarmi dove?”.
“A Mostar, in Herzegovina”.
“Mostar non è vicina ed i collegamenti sono pessimi. Come faccio a raggiungerla?”.
“Non fartela sotto già a parole, pecora istriana! Ho avuto una soffiata su Mostar che è una bomba e di certo non me la farò scappare. Tu ci andrai e lo farai senza protestare.” Ne parlava come se dovesse andarci lui di persona, con tutta la situazione sotto controllo. Invece non si schiodava mai dalla poltrona dell’ufficio, non aveva mai fatto un passo da nessuna parte, stava lì da anni, messo grazie alle conoscenze che vantava tra i vertici del defunto partito comunista. Anche ora che il vento era cambiato, anzi che un uragano aveva spazzato via tutte le macerie del passato e la guerra infuriava dappertutto, lui era riuscito a salvare il sedere e la poltrona.
“Ora ascoltami bene, da fonti certe ho saputo che tra pochi giorni, tre al massimo, il Ponte di Mostar che unisce la città musulmana a quella croata, sarà abbattuto. Voglio che tu vada lì immediatamente, senza perder tempo, che ti piazzi nelle vicinanze e documenti con un video il crollo del ponte. Tra qualche ora partirà un convoglio dell’UNPROFOR, scorteranno alcuni giornalisti e ripuliranno la via per gli aiuti umanitari. Sono diretti al porto di Ploče, dunque ti porteranno nelle vicinanze. Muoviti e acqua in bocca, questa notizia non la sa nessuno e deve rimanere segreta fino al momento della deflagrazione”. Seguì un silenzio scandito dal consueto ticchettio dell’apparecchio, un silenzio di stupore.
“Hai capito quello che ho detto!”, urlò Jelčić.
“Certo che ho capito, mi sembra tutto assurdo, ma ho capito”.
“Non sforzarti di pensare, non fa per te. Prendi quella dannata videocamera e vai alla sede dei caschi blu, subito!”.
“D’accordo, ci vado immediatamente. La contatterò appena possibile.”
“Contattami solo quando avrai il materiale, non prima, altrimenti non scomodarti a ritornare.”
“Sta bene”, chiuse buttando giù il ricevitore senza salutare.
Doveva uscire in fretta, non gli restava molto tempo per rendersi presentabile. Il quartier generale dell’UNPROFOR era vicino, al palazzo della Posta Centrale. Si fece coraggio e si mise sotto il getto freddo della doccia. Dopo mezzora era pronto, doveva soltanto sistemare la videocamera nello zaino. Girare a Sarajevo non sembrava prudente, questo lo sapevano tutti. Imbattersi nei criminali che avevano difeso la città dai serbi ed ora la stavano divorando, non era improbabile. Gangster prepotenti come Musan Topolović-Caco e Ramiz Delaić-Ćelo, assassini senza scrupoli che con le loro bande assaltavano anche le stazioni della polizia, da tempo avevano l’abitudine di sequestrare persone, inclusi i giornalisti, e chiedere riscatti. Avrebbero potuto sequestrare anche lui e quando non sarebbe stato pagato il riscatto, tagliargli il naso e le palle, per poi abbandonarlo a dissanguarsi nei vicoli della Città Vecchia. Avevano imposto la loro mentalità e le loro regole, c’era poco da fare. I caschi blu non disdegnavano i lucrosi traffici, il contrabbando, la prostituzione praticata su larga scala e il boom della droga. Era un gran puttanaio quella città, chi sapeva e poteva approfittarsene faceva i quattrini, mentre gli altri morivano ovunque e pareva non ci fosse un futuro. Uscì dall’albergo che era l’una, il sole autunnale gli sembrò più accecante del solito. Si diresse subito al quartier generale, bisognava lottare un po’ con la burocrazia prima di partire. Le granate cadevano sulla città ma la macchina burocratica stritolava senza sosta. La partenza era prevista per il primo pomeriggio; il convoglio sarebbe uscito dal distretto di Sarajevo in direzione di Mostar, nell’area controllata dai croati. Poi avrebbe raggiunto Ploče, lo sbocco sul mare. Salì sul blindato dei caschi blu francesi, c’erano anche tre giornalisti inglesi sul mezzo, due uomini e una donna. Pensò che gli sarebbe piaciuto dormire fino a destinazione, quello però non era un viaggio di piacere ma un tour all’inferno. Infatti già la periferia della città pareva infernale, con i sobborghi controllati dai serbi dove si praticava il cecchinaggio lungo le vie. I segni dei bombardamenti delle artiglierie che lanciavano proiettili dalle alture, erano visibili ad ogni metro di strada percorsa. Fuori dal perimetro urbano la distruzione non trovava ostacoli, i villaggi erano arsi fino alle fondamenta. Sulle mura inerite si vedevano slogan inquietanti, simboli di odio etnico e l’onnipresente motto “Welcome to Hell”. Osservava la desolazione del posto, carcasse di macchine bruciate, case svuotate con i tetti crollati, stalle distrutte, spettri di alberi inceneriti. Aveva percorso quella strada tanti anni prima, quando faceva il giornalista sportivo e gli era capitato di seguire le Olimpiadi invernali di Sarajevo. Pareva un’epoca lontana e soprattutto un altro Paese. I giornalisti inglesi parlavano poco e solo tra di loro, i caschi blu facevano lo stesso. Nessuno avrebbe voluto trovarsi lì, questo sembrava evidente, ed avevano smarrito anche quel briciolo di cortesia civile che avrebbe imposto un minimo di conversazione di circostanza. Un blocco croato, alle porte di Konjic, nella vallata della Lašva, fermò il convoglio. I militari francesi parevano molto tesi e innervositi da quello stop. L’ufficiale che viaggiava nel blindato scese e iniziò a parlare con i croati. Erano tutti armati e quasi gli puntavano le armi contro. Allora il militare fece cenno di scendere agli altri che presero posizione. I giornalisti non chiacchieravano più, la donna pareva smarrita e impaurita, sbiancata di colpo. Dopo poco i caschi blu trovarono un accordo con i croati per passare, previo pagamento del “pedaggio”. Il convoglio ripartì subito, attraversò i sobborghi di Konjic a velocità sostenuta. La violenza si era diffusa nella Bosnia centrale a macchia d’olio, c’erano villaggi distrutti dal Consiglio croato di difesa che inviava i suoi uomini con i volti dipinti di nero per non essere riconosciuti, altri inceneriti dai musulmani e dai mercenari islamici venuti da lontano, dall’Afghanistan, dalla Turchia, dalla Siria, le cui violenze sfuggivano di mano persino ai loro vertici. Si respiravano la morte e il sangue in quel luogo spettrale, i veri inferi, dove alcuni esseri umani si trovavano a proprio agio seduti su cataste di cadaveri. Da più di una settimana la violenza era esplosa con brutalità, mandando di fatto in frantumi le tregue e gli accordi grotteschi che gli occidentali pensavano di poter imporre. A Vareš, poco più di trenta chilometri da Sarajevo, i sopravvissuti musulmani ai lager serbi avevano cacciato migliaia di croati e saccheggiato la città. Fu la risposta al massacro di Stupni Dol, dove i croati a loro volta avevano ucciso molti civili. Le vittime ed i carnefici si confondevano in quella guerra, documentarla in modo obiettivo non era possibile. Lui però il massacro di Vareš se l’era perso, non aveva documentato la fuga dei croati, il che, sentiva, gli sarebbe costato anche quello straccio di lavoravo che conservava. Doveva filmare la distruzione del Ponte Vecchio, sempre se l’informazione era vera. Non gli importava più nulla del conflitto, dei morti, dell’immobilità di chi avrebbe potuto fare qualcosa. In Bosnia si accumulavano così tante scorie interiormente a causa delle atrocità viste, che nemmeno le bonifiche antinucleari potevano ripulire l’organismo e la mente. Doveva pensare solo a se stesso ora, doveva soddisfare la voglia di sangue e distruzione del suo capo, solo così l’avrebbe lasciato in pace. La donna, la giornalista, lo stava osservando; assorto tra i pensieri non se ne era accorto fino a quel momento. Aveva incrociato i suoi occhi, ancora impauriti. Era bella, magra, castana. In un’altra situazione una così non si sarebbe nemmeno accorta della sua presenza, ma qui, ora, in quella guerra, tutto era diverso. Un uomo, anche uno qualunque come lui, poteva rappresentare la vita o la morte. Ne fu soddisfatto, provò piacere per il ribaltamento delle regole, per la cancellazione dei valori. Gli individui in guerra si dividono in quelli che subiscono le sopraffazioni e quelli che le perpetrano. Non conta nient’altro, solo la legge del più forte. Ed osservando i suoi compagni di viaggio giornalisti, magri, dai lineamenti effeminati, totalmente spaesati, era evidente perché lei fosse spinta da un istinto primordiale a guardarlo. Quel fisico robusto, sgraziato per i canoni correnti di stile, quelle mani grosse, callose congenitamente, poco adatte a digitare frasi ispirate sulle tastiere dei computer, in quel contesto apparivano quanto mai vincenti.
“Lei è un giornalista jugoslavo?”, chiese la donna.
“Croato, sono un giornalista croato”.
“Noi siamo diretti a Mostar, dobbiamo realizzare un reportage su come sarà applicato il piano Owen-Stoltenberg, sulle reali condizioni di vita in Bosnia”, proseguì la donna con una certa preoccupazione nel tono della voce. La frase lo fece ridere e non lo nascose. Il collega inglese provò a zittirla, ma lei non gli diede retta.
“Credo sia assurdo documentare una tregua infranta decine di volte, un piano che non verrà rispettato da nessuno”. Lo osservò di nuovo, anzi gli incollò gli occhi addosso. Lui si limitò a tirare fuori dal taschino le sigarette, sentiva di nuovo un tremendo mal di testa e quella donna lo irritava.
“Ha saputo del villaggio distrutto dai croati qualche giorno fa? Si dice che sia stato assaltato da uomini inferociti, avevano le facce dipinte di nero e di giallo, per non essere riconosciuti da eventuali superstiti. Voi giornalisti croati come vi ponete di fronte a tali atrocità?”.
“Ma che vuole saperne lei delle atrocità…”, fece quasi sottovoce, la testa gli doleva e se la stava massaggiando.
“So tutto delle atrocità, solo che non immaginavo, non credevo, voglio dire, si presumeva che i serbi fossero responsabili di certe atrocità, invece…”
“Invece, venendo in Bosnia ha scoperto che nessuno ne è immune, né i musulmani né tanto meno i croati, brava”, troncò sarcasticamente il discorso.
“Deve perdonare la mia collega”, intervenne l’uomo, “Abbiamo girato un servizio sui lager in Bosnia-Herzegovina, in particolare su quello vicino Konjic dove sono stati internati dai musulmani moltissimi serbi, credo che Helen ne sia rimasta scossa e profondamente confusa”, accarezzò i capelli della donna, svelando una tenerezza che andava ben oltre il rapporto professionale, “ma è il nostro lavoro, quello dei giornalisti intendo, documentare la realtà, non trova?”.
“Già, specie se non la si conosce la realtà…”.
“Che intende dire?”, chiese la donna.
“Niente signora, faccia conto che non abbia detto alcunché”.
“Gira voce che sta per avvenire qualcosa di grosso a Mostar”, parlò l’altro uomo, il cameraman, che non aveva fiatato fino a quel momento, “lei ne sa niente?”.
“Non ne so niente”.
“Perché è così reticente? Siamo colleghi santo cielo”, lo incalzò la donna.
“Sono diretto anch’io a Mostar per documentare l’assedio alla città musulmana, questo è tutto. Ora che ho soddisfatto la vostra curiosità, mi volete lasciare in pace?”.
“Non è un’area sicura quella di Mostar”, disse l’ufficiale dei caschi blu voltandosi verso di loro.
I giornalisti si parlarono sotto voce, dovevano decidere se fermarsi o continuare il viaggio con i mezzi UNPROFOR. Era sollevato dall’intervento del militare, dalla preoccupazione degli inglesi. Quel servizio doveva essere suo, senza tanta concorrenza. Appoggiò la testa sul mezzo, la vibrazione del metallo lo tranquillizzò e dopo poco si addormentò. Sognò le campagne intorno Torre, vicino Parenzo, dove da ragazzino portava i manzi al pascolo, dove la brezza del mare lo accarezzava come un’invisibile mano materna. Rumori, voci, chiasso, mezzi in movimento lo strapparono dal sogno. Erano giunti alla periferia di Mostar. Scese dal blindato dopo aver ringraziato frettolosamente i militari, facendo anche un cenno di saluto ai giornalisti che rimasero sul mezzo, diretti a Ploče. La città era spaccata in due, la linea di confine era il fiume Neretva che l’attraversava come un nervo scoperto. Quelle acque avevano conosciuto il sangue e la morte in tutte le epoche, dai tempi dei turchi alla seconda guerra mondiale, per essere contaminate anche in quel momento. Il settore croato della città traboccava di uomini armati, le unità controllavano ogni movimento. C’erano uomini accampati vicino al fiume, dall’altra parte si estendeva il settore musulmano. Il suo pass fu controllato, come anche il contenuto dello zaino. Per il resto i movimenti parevano liberi, tanto che si diresse verso una delle piccole spiagge. Un chiosco che vendeva carne alla griglia ai turisti, ora era occupato da alcuni soldati. Avevano acceso un fuoco e stavano arrostendo salsicce di maiale. Parevano ebbri di alcol, di droga e di fanatismo, cantavano e imprecavano contro i musulmani dall’altra parte. L’accampamento improvvisato era sorvegliato dai cecchini, appostati appena sopra il chiosco. Tirò fuori dallo zaino la videocamera e iniziò a riprendere, cominciando con una panoramica, per finire sui soldati. Uno di loro si avvicinò innervosito.
“Chi sei tu con la camera? Cosa stai riprendendo?”.
“Sono un giornalista di Tv Zagabria, ho l’autorizzazione”.
“Della televisione? Sei proprio della televisione?”.
“Sì, proprio…”.
“Ehi ragazzi!”, urlò verso gli altri, “abbiamo la televisione qui!”. I soldati cacciarono un urlo e brindarono con bottiglie di birra. Dal gruppo si staccò un altro soldato e si avvicinò.
“Amico, devi fare un servizio su di me”, gli disse euforico, “sono un grande cecchino, il migliore!”, urlò forte, gli altri gli fecero eco.
“Ne ho ammazzati tanti di quei turchi sai? Attraversano quel dannato ponte di notte, per rubarci l’acqua alla fonte, lo fanno correndo. Io però li vedo sai? Da lassù li vedo quei bastardi e riesco anche a colpirli!”, urlò di nuovo.
“Unisciti a noi compare, stiamo arrostendo carne di porco, alla faccia dei turchi!”, risero tutti fragorosamente. Continuò ancora a riprenderli, qualcuno gli allungò una birra. Sentì freddo, l’inverno balcanico stava avanzando. Vicino al fuoco c’erano delle sedie di plastica, di quelle dei bar all’aperto. Ad una era seduto un uomo sulla cinquantina, fumava la pipa, accanto a lui il fucile.
“Posso sedere qui accanto al fuoco?”.
“Certo brate (fratello), siediti”.
“Fa freddo eh? Ormai è inverno qui”.
“Siamo in novembre, fa sempre freddo in questo mese. Tu di dove sei?”.
“Di Zagabria, della televisione”.
“Sì, questo l’ho sentito. Non sembri di Zagabria però”.
“Infatti ci vivo soltanto. Sono istriano, dell’Istria, sulla costa”.
“Ah sì, l’Istria, ne ho sentito parlare ma non l’ho mai vista. E’ bella?”.
“Molto bella, clima piacevole, luoghi interessanti. Non c’è nemmeno stata la guerra lì”.
“Già, ci sono posti dove le guerre non arrivano sempre ed altri dove sembra ci siano sempre, anche quando non appaiono”.
“Ti riferisci a questa città?”.
“Sì, mi riferisco alla mia Mostar”.
“Vivi qui dunque?”.
“Se ci vivo? Brate io sono nato e cresciuto qui, non me ne sono mai allontanato troppo, morirò in questo luogo”. Seguì una pausa, l’uomo aspirò forte il tabacco della pipa e buttò fuori il fumo verso l’alto.
“Da piccolo il mio vecchio mi portava su questa sponda del fiume a pescare, mi raccontava le leggende della Grotta Verde dove vivevano i giganti. Chi l’avrebbe detto che finiva tutto così, in una carneficina”.
“Nessuno poteva immaginarlo”.
“C’erano i segnali, dentro di noi li potevamo riconoscere ma non abbiamo voluto. Quando il male cresce e alberga dentro il cuore dell’uomo, egli si rifiuta di vederlo. Sai che questa città per il passato regime era la perla, il simbolo, dell’integrazione?”.
“Davvero?”.
“Certo, qui c’era il più alto numero di matrimoni interetnici di tuttala Jugoslavia”.
“Cosa facevi prima della guerra?”.
“Ero un falegname, il mestiere di mio padre. Lo tramandiamo di generazione in generazione. Doveva succedermi mio figlio al negozio. Lo avrebbe fatto se non fosse morto”.
“E’ morto in guerra?”.
“Sì…”.
“Mi dispiace”.
“L’ho vendicato a modo mio. Mi sono unito al Consiglio croato di difesa poco dopo. Mio figlio è morto nella vallata della Lašva, vicino Travnik. Proprio in quella zona, ad aprile, c’è stato il fatto di Ahmići. Ne hai sentito parlare?”.
“Sì, però se tu me ne volessi parlare ancora capirei meglio”. L’uomo gli sorrise maliziosamente.
“Era l’alba, il villaggio si trovava davanti a noi. Ci fu ordinato di dipingerci il volto di nero. Li abbiamo sorpresi nel sonno, del tutto inermi. Ne abbiamo ammazzati a dozzine. Uomini, donne, bambini. Arsi vivi, impiccati. L’Imam fu inchiodato assieme alla moglie sulla porta della moschea, dopo gli fu dato fuoco. Abbiamo seguito l’esempio dei serbi ed ha funzionato”.
“Ma tutto questo lo avete fatto senza che nessuno intervenisse?”.
“Ti riferisci ai caschi blu?”.
“Certamente…”.
“Gli inglesi se non sbaglio erano di stanza lì. Hanno assistito a tutte le violenze compiute. Ricordo che un loro ufficiale disse di non riscontrare nel mandato il compito di immischiarsi nella nostra lotta tribale. Per loro siamo solo bestiame e stanno qui esclusivamente per l’embargo sulle armi”.
“Mondo di merda”, disse dopo aver trangugiato un bel po’ di birra, “che intendi dire con l’embargo sulle armi?”.
“Intendo dire che se in via ufficiale pongono l’embargo, se fanno le no fly zone e tutte queste cazzate, dall’altra parte, in via ufficiosa, ci vendono le armi. Sai che traffico lucroso per i signori della guerra? Pensa che a noi le armi le vendono persino i serbi, compiaciuti della lotta tra tutte le etnie in Bosnia”.
“Il colmo davvero. Non pensi sia controproducente per te raccontarmi tutte queste cose considerando che sono un giornalista?”.
“Brate, ma chi vuoi che ti creda anche se le racconti? E poi come ho già detto, di noi non frega niente a nessuno”.
“Credo tu abbia ragione. Da quanto sei tornato a Mostar?”.
“Da mesi ormai. Dopo Ahmići il conflitto si è propagato come una malattia, la guerra tra noi ed i musulmani era ed è sanguinosissima. Prima abbiamo bloccato l’ingresso ai profughi in città, poi l’approvvigionamento a quelli che già c’erano. Abbiamo ordinato ai musulmani di andarsene subito ed anche ai caschi blu. Dovevi vedere come sono scappati quei gran soldati, tutti Rambo a parole!”, sghignazzò, “entrammo in città e ci dirigemmo sulla sponda sinistra della Neretva dove sapevamo c’erano i musulmani. Iniziò così la caccia, la peggiore battuta alla quale abbia mai partecipato”. Calò il silenzio, l’uomo con la pipa guardava il fuoco come paralizzato.
“Tu sei di Mostar, questa è la tua città. Come hai potuto massacrare la gente che viveva qui?”.
“Nulla ha senso in questa guerra brate, se non lo impari in fretta impazzisci, come non diventare matti? Abbiamo rinchiuso migliaia di persone, ucciso gli intellettuali e le personalità di spicco, poi lasciate a marcire nei cassonetti. Siamo stati capaci di usare le bombe al fosforo per prendere la città. Vedi l’altra sponda, la destra del fiume? Ecco, sono tutti lì adesso, migliaia di persone relegate nella parte orientale e noi siamo qui. Dirai che può bastare? No, non è così. Non sopportiamo alcun legame col passato, nulla di nulla. Così butteremo giù il Vecchio Ponte”.
“Allora lo farete? Mi confermi che lo farete? Sarò sincero con te, ho avuto una soffiata e sono venuto per documentarlo. Si parla di qualche giorno, due al massimo”.
“No, pensiamo di farlo domani. Resta nei paraggi, avrai il tuo pezzo di Storia in esclusiva”. Provò come una scossa, un brivido, ma non era il freddo. Si sentì l’adrenalina nel sangue, stava per documentare uno dei fatti più significativi di quella spaventosa guerra. Sarebbero fioccate le richieste di collaborazione, interviste, pezzi sui giornali di mezzo mondo. L’occasione di mandare al diavolo quel porco di Jelčić, definitivamente.
“Chissà se è viva, chissà cosa le avranno fatto…”. La frase risuonò senza che se ne accorgesse subito, assorto com’era nei suoi sogni di gloria. Poi spinto dalla curiosità, si voltò verso l’uomo.
“Di chi parli?”.
“Di Fatima, una donna musulmana. Siamo stati fidanzati da giovani, pensavamo persino di sposarci. Abitava vicino al negozio, la vedevo passare tutte le mattine. Avrei voluto sposarla, davvero, con tutte le mie forze”.
“Perché non l’hai fatto?”.
“Mio padre non ha voluto. Già allora le divisioni esistevano, nonostante la sbandierata fratellanza”.
“Non hai saputo nulla di lei?”.
“No, niente. I nostri si sono abbandonati ad ogni genere di eccesso qui sai? Hanno ammazzato, saccheggiato e stuprato. Mi chiedo spesso cosa possono averle fatto”.
“Evita di chiedertelo, tanto a cosa serve?”.
“E’ vero, maledettamente vero. Senti, ti ho osservato fin da quando ti sei seduto. Non hai proprio l’aria del giornalista”.
“Che vorresti dire con questo?”, chiese in tono alterato.
“No, non ti offendere. Non mi piacciono i giornalisti, sono vacui venditori di fumo. A guardarti sembri uno di noi, sì, sembri come noi”.
“Dove vorresti arrivare? Non capisco”.
“Intendo che hai le mani grandi, forti, mani da uomo, non da damerino che scrive. Mani che non temono niente. Guarda, guarda le mie? Sono identiche. Hanno lavorato il legno, hanno conosciuto la fatica. Sono capaci di uccidere, ma anche di cullare una creatura. Noi conosciamo la vita vera brate, le ingiustizie e il dolore. A cosa serve quella videocamera ad uno come te?”.
“Mi serve per fare il mio lavoro”, troncò bruscamente.
“Dai, lasciamo stare questi discorsi. Ho di là un paio di bottiglie, che dici se ci abbandoniamo a qualche innocuo eccesso alcolico?”.
“Un’ottima idea!”, disse sollevato. Moriva dalla voglia di bere, sentiva di non poter resistere senza il fuoco dell’alcol. Quella notte partecipò ai festeggiamenti dei soldati, festeggiamenti per cosa non sapeva. Si sentì appartenere ad un gruppo, in perfetta sintonia, come non gli era mai capitato prima. Quegli uomini semplici, essenziali, crudeli senza ipocrisia, l’avevano accettato senza riserve. L’alcol prese il sopravvento sulla coscienza poche ore dopo; come avvolto dall’oblio si abbandonò al sonno su un tavolone dentro il chiosco. Una mano forte lo scosse a lungo prima di svegliarlo, di prima mattina. Grugnì arrabbiato, cercò di farfugliare qualcosa.
“Brate alzati, su forza. Lo vuoi il tuo pezzo di Storia da portar via?”. Saltò giù dal tavolone, la terra e gli oggetti giravano come in una giostra. Solo dopo alcuni minuti realizzò di dover tirare fuori la videocamera e seguire i soldati. Uscì dal chiosco, il freddo della mattina era pungente. Si diresse sotto un grande albero dove c’era l’uomo con la pipa, assieme ad altri soldati. Qualcuno parlava ad una radio mobile, ogni tanto alzava la voce perché la linea era disturbata.
“Cosa succede?”.
“Adesso va giù”, disse indicando con il bocchino della pipa il ponte. Prese subito la videocamera e la accese; le mani gli tremavano, ma non era per il dopo sbornia. Stava per assistere alla distruzione del Ponte Vecchio sulla Neretva, fatto costruire da Solimano il Magnifico nel Cinquecento e considerato una delle meraviglie dell’arte ottomana. Soprattutto stava per filmare la fine del ponte fisico e ideale tra la cultura europea e quella orientale. Attese alcuni momenti interminabili, con la videocamera accesa che faticava a tenere ferma, la radio gracchiava e trasmetteva ordini, il suo respiro pesante ed affannoso. E poi accade, come un colpo al cuore, come una fucilata. Le cannonate, le esplosioni, la deflagrazione. Una nuvola di fumo e detriti, delle grida. Sulla Neretva, davanti a lui, non c’era più niente, solo qualche resto della vecchia costruzione da una parte e l’altra del fiume. I soldati esultarono, tutti tranne l’uomo con la pipa. Lui invece pensò che aveva filmato ogni cosa, ogni istante. Questa volta non si era perso niente, teneva tra le mani il suo pezzo di Storia. Si allontanò dal gruppo, ritornò alla spiaggia, notando solo in quel momento che era cementata. Si mise seduto, tirò fuori il blocco degli appunti e scrisse il miglior pezzo d’accompagnamento al reportage filmato che avesse mai scritto. Lì, nella Mostar distrutta, nel freddo dei Balcani, seduto ad un tavolo di un bar perduto nel tempo, sovrastato da un cielo azzurro di immutabile bellezza, per nulla turbato dalla follia umana. Sentì l’adrenalina e la vita scorrergli nel sangue, come un flusso rabbioso e furibondo che stava rompendo tutti gli argini. Qualcosa era cambiato o si era spezzato dentro di lui, sapeva che non poteva tornare indietro. A Mostar stavano confluendo giornalisti di ogni Nazione e testata, scortati dai mezzi UNPROFOR e tra breve il luogo sarebbe piombato nel caos mediatico. L’uomo con la pipa lo raggiunse appena in tempo prima che stracciasse il suo pezzo di Storia su carta.
“Allora come andiamo? Sei soddisfatto delle riprese?”.
“Sono perfette probabilmente”.
“Probabilmente dici? Cosa intendi?”.
“Cos’è successo di così interessante adesso, dimmi? Non esiste più il Ponte Vecchio, una perla dell’arte, un simbolo multiculturale. Cosa diranno di noi adesso? Che siamo barbari, come al solito”, scosse la testa, sentì l’arrivo dell’emicrania. L’uomo sorrise, cinico, stanco.
“Credi che è solo colpa nostra se non c’è più?”.
“Se non è nostra di chi è?”.
“Magari mi sbaglio, ma quelle cannonate non possono averlo buttato giù così rapidamente”.
Si voltò di scatto verso di lui, strabuzzò gli occhi.
“Come sarebbe a dire?”.
“Per me c’erano delle cariche sul ponte, ho come la sensazione che i caschi blu ci abbiano dato una mano”.
“Hai delle prove?”.
“Certo che no, ma ho imparato qualcosa sugli esplosivi negli ultimi mesi. Poi ti dirò, forse non aspettavano altro. Così ci faranno passare per assassini, rozzi animali che non rispettano niente. Controlleranno la città e fermeranno i cecchini. Non perché freghi a qualcuno delle tante persone costrette ad attraversare il ponte di corsa, sotto i colpi, per prendere l’acqua; no, non è altro che la pessima figura che stanno facendo davanti all’opinione pubblica.
“Io non ci sto capendo niente, assolutamente niente. Cosa cazzo ci faccio qui?”.
“Ehi, ehi, sei messo male brate, sembri sconvolto e non per il ponte”.
“Non volevo venire in Bosnia, mi ci hanno mandato da Zagabria. Pensavo servisse alla carriera: ma quale carriera? Non ho nessuna carriera”.
“Senti, non so quali siano i tuoi problemi, però ti posso dire che un uomo ha valore solo se appartiene ad un gruppo. Le regole qui sono semplici e chiare, hai visto. Ci sosteniamo a vicenda, ci diamo coraggio per andare avanti in questo mondo assurdo, nella guerra, dove nulla ha senso. Se vuoi vedere ciò che accade, se lo vuoi vedere veramente, lo devi vivere. Butta via quella camera, gettala nel fiume. Solo di questo ti puoi fidare brate”, gli indicò il kalashnikov, “è l’unico oggetto che conta, quello che hai tu non serve a niente, è pura mistificazione”.
“Ho il filmato ed il pezzo, li voglio far arrivare alle televisioni”. L’uomo fece un fischio, poi un cenno ad un ragazzo seduto sul muretto che costeggiava la strada.
“Questo è Stipe, un bravo ragazzo”, lo presentò come fosse il suo scolaro, “dai a lui il pezzo e il video”.
“Ma come? A lui?”.
“Sì, ha un contatto con la CNN, saranno qui tra poco. L’hanno intervistato questo giovanotto e ogni tanto lui gli fa ottenere qualche scoop, vero?”. Stipe annuì tirando la canna che aveva tra le dita, tutta spiaccicata.
“E’ sicuro? Arriverà proprio a loro?”.
“Non dubitare, già stasera sarà su tutte le televisioni”.
“Bene, devo fare una telefonata allora, poi ho concluso”.
“Lassù alla vecchia rosticceria, con l’insegna fuori, ci sono i telefoni”.
Si diresse subito al locale, era occupato dai soldati. Prima della guerra in quel posto si facevano i migliori ražnjići (spiedini) della città. Ora c’erano uomini seduti ai tavoli con bottiglie di birra e grappa, musica etno pop a tutto volume e chiasso assordante. Chiese ad uno di loro se poteva telefonare, gli fece un cenno di consenso. Andò in cucina, trovò un apparecchio e da lì chiamò la redazione di Zagabria. Rispose la segretaria di Jeličić, gracchiante come una cornacchia. In modo sbrigativo gli disse che non poteva passargli il direttore.
“Me lo passi subito!”, tuonò al ricevitore, “non ho tempo da perdere con lei! Ho realizzato un pezzo che è una bomba, lui sta attendendo la mia telefonata”. La donna rimase interdetta per un momento, poi senza rispondere lo mise in comunicazione con Jelčić.
“Sei tu? Non ti sei perso dunque”, fece acido, senza nessun preambolo.
“No, direi che mi sono ritrovato finalmente. Ho filmato la caduta del ponte ed ho scritto un ottimo pezzo d’accompagnamento che la descrive dettagliatamente”.
“Non mi servono le tue descrizioni! Mi bastano le immagini!”.
“Lo so vecchio maiale che non ti servono! Sai a malapena leggere, infatti non sono per te e nemmeno il video”.
“Come ti permetti? Cosa stai dicendo? Ma sei impazzito?”.
“No essere schifoso, non sono impazzito. Ho chiamato per mandarti al diavolo, a te e tutta quella merdosa redazione che dirigi. Il video ed il pezzo saranno consegnati alla CNN, sì, proprio così. Lo faccio io il “colpo” imbecille, non tu!”.
“Perhat, Perhat! Non riattaccare, non riattacc…”. Chiuse la conversazione sbattendo la cornetta con forza. Poi si fermò con i soldati, gli offrirono subito da bere. Era euforico, sollevato, libero come non mai.
“Allora ragazzi, mi vorreste con voi a documentare le battaglie, a combattere al vostro fianco?”.
“Sì!”, quasi urlarono.
Uscì dal locale e tornò alla piccola spiaggia. Diede al ragazzo la cassetta ed il pezzo.
“Mi raccomando, consegna tutto ai giornalisti della televisione americana”.
“Lo farà”, disse l’uomo con la pipa, “lo scanno se non lo fa”, gli diede una pacca sulla spalla, ma era chiaro che non scherzava.
“Allora brate, questo fucile ora è tuo, non lo deludere mai”. Prese in mano l’arma, la maneggiò un po’, poi la puntò verso l’altra riva del fiume.
“E’ perfetto”, sussurrò. Tirò fuori il tesserino da giornalista e lo strappò, poi prese la videocamera e la lanciò con forza nel fiume. Era finita, finalmente. Quelle grandi mani da contadino, geneticamente callose, le avrebbe usate per altro d’ora in poi. Riprese il fucile, lo strinse forte, ne percepì la potenza.
“Raggiungiamo gli altri”, fece all’uomo con la pipa. In un attimo si fece prendere dalla bolgia, dalle frasi minacciose, dalle grida, dall’alcol. Era steso a terra, quasi in coma etilico, quando la televisione trasmise la notizia. Una giornalista della CNN, con la giacca color pastello ed i capelli gonfi, mostrò al mondo intero il suo scoop.
“Ed ecco le immagini sconvolgenti dell’insensata distruzione del Ponte Vecchio a Mostar, in Bosnia. Un’ulteriore barbarie documentata dal giornalista croato Silvano Perhat, che si trovava nel punto più vicino dell’antica costruzione. Nel pezzo scritto che ci è giunto assieme al documento video, si evoca il drammatico momento del crollo, con realismo tale da fare invidia ad un premio Pulitzer. Tutto questo nell’incomprensibile guerra fratricida dell’ex Jugoslavia”.