Napoli notturna, viaggio nella storia
Scrivere di Napoli è come immergersi nel mito, nella sconfinata bellezza del Mediterraneo, nell’arte espressa nei modi più curiosi. Cantori, poeti, viaggiatori e grandi scrittori l’hanno raccontata, il cinema l’ha consegnata all’immaginario del mondo intero. Sommersa da pregiudizi, luoghi comuni, banalità folcloristiche, la regina partenopea trova sempre la forza di emergere e mostrarsi nella sua bellezza superba. Camminando per le sue vie, ritrovandosi nelle piazze, sembra di passeggiare con i personaggi della sua storia. Amo Napoli da sempre, grazie all’amore per il cinema e la letteratura, alla grande passione di mio padre per Totò e tutti i suoi film. Vedendola di notte, non troppo affollata, in una sera d’inverno, non ho potuto fare a meno di riflettere sul suo passato, fatto di momenti luminosi ma anche di lunghe fasi tenebrose che ne hanno minato le peculiarità, l’originalità, la grandezza. Napoli di notte è sublime, quando il buio cala sul golfo più celebrato d’Italia, sui monumenti, le piazze, i vicoli, e mi fa ripercorrere la sua storia che tanto chiarisce la contemporaneità. Pensare a Napoli, tracciarne una ideale identità è arduo; i suoi fondatori Greci di stirpe tessalica l’hanno costruita secolo per secolo. Nasce dunque come una città ellenica e resta tale, fino all’anno Mille della nostra era. Attira tutti i colonizzatori per la felicità irripetibile della sua condizione naturale: il golfo protetto dalla penisola sorrentina e dalle isole, la grande massa del Vesuvio e del Faito a dominare la curva meridionale della costa, le colline a smorzare i venti del nord e dell’oriente, un clima mite adatto alla vita all’aperto. Origine greca con le inclinazioni e i gusti che la contraddistinguono. Si forma così l’idea del napoletano, un’idea che a tratti prevale ancora: individualismo, culto dell’intelligenza e della conversazione, amore per il teatro e in genere per lo spettacolo, diffidenza per i campagnoli, e tutti i difetti di queste virtù, come un certo esibizionismo, l’enfasi messa in tutte le cose. Quando i Romani arrivano in questo territorio, intorno al 326 a.C., Napoli si adatta volentieri a diventare una zona vacanziera per l’opulento patriziato che ama la vita di villa, gli splendori della scena e della tavola, l’arguzia di un popolo che discorre come gli Ateniesi, che adora l’amore, il lusso e il frastuono come gli Asiatici. Silla e Cesare detestano la città, Nerone l’ama profondamente: vi recita e viene applaudito da tanti che conoscevano bene l’arte della beffa al padrone, come Pulcinella, fingendosi servo. Alla caduta di Roma, Napoli rimane greca grazie a Bisanzio per secoli, con i suoi vescovi-duchi che vi esercitano il potere. La popolazione è cristiana già nel II secolo, ma in una sorta di conversione di facciata: nel cuore di ciascun figlio della sirena Partenope resta il legame con i miti antichi della magia e della superstizione pagana. S. Gennaro, la Madonna, gli altri Santi, prendono il posto degli dèi a cui Omero ha attribuito le fattezze, le passioni, le debolezze degli uomini, assieme alla grandezza degli eroi. Dall’anno Mille in poi, le invasioni straniere lacerano profondamente il tessuto della città. I Normanni, chiamati dal duca per bloccare i Longobardi, impongono un dominio severo che blocca sul nascere l’ideale di un comune libero e con esso ogni spirito d’indipendenza, ogni sogno di autonomia.
Gli Svevi che con il grande Federico II fanno della città la capitale della cultura italiana, ribadiscono un potere accentratore e soffocante: nel ceto medio appare la figura del funzionario, dell’intellettuale che si mette al servizio dello Stato senza preoccupazioni o riserve ideologiche. Questi sono i futuri prefetti, questori, direttori generali che dominano l’aristocrazia cittadina. Tra i nobili comincia ad emergere la figura del cortigiano; nella plebe, invece, comincia a delinearsi la consuetudine facile e abietta al parassitismo, caratteristica questa di tutte le capitali. Nei tre secoli che seguono, tra il Trecento e il Cinquecento, sotto gli Angioini e gli Aragonesi, la città è una vera capitale e vive una delle sue più luminose stagioni. Se ne accorge Giovanni Boccaccio che viene qui a lavorare, a studiare, ad innamorarsi delle donne e delle strade di Napoli e vi ambienta una deliziosa commedia del Decamerone che tutti abbiamo studiato: Andreuccio da Perugia. Una folla rumorosa e colorata si muove nelle viuzze del centro, tra le botteghe cariche di mercanzia e i magnifici palazzi signorili, le chiese gotiche e i mercati: questa è l’epoca della Napoli dorata. L’incantesimo sembra svanire con l’occupazione spagnola, per il Mezzogiorno una vera catastrofe. La vanità, l’ignoranza, il bigottismo dei viceré, la loro inettitudine a governare, lo sfruttamento parassitario delle risorse locali, il disprezzo per i commerci e le industrie, la funesta suggestione esercitata sul patriziato che è indotto a bruciare ingenti patrimoni nell’ozio e nel lusso, condannano per due secoli le regioni meridionali, e prima di tutto Napoli, all’inferno del sottosviluppo economico, sociale e morale. Altrettanto negativa è l’influenza esercitata sulla plebe dal contatto con le soldatesche del Re Cattolicissimo, scurrili, manesche, disoneste, malate di sifilide. I lazzaroni non si fanno annientare come gli Indios delle colonie americane, ma si lasciano corrompere nel linguaggio e nei sentimenti da un dominio che isola il Sud Italia dall’Europa, lo taglia fuori dal grande dibattito della Riforma e dal primo decollo del capitalismo borghese. Sono due secoli di miseria e confusione.
Nel 1547 una rivolta popolare costringe le autorità di occupazione a rinunciare al progetto di introdurre a Napoli l’Inquisizione alla maniera di Spagna, tuttavia proliferano le figure di preti, monaci e suore e della devozione sempre più fanatica della folla. Il rigore inflessibile di Filippo II e dei suoi successori, in materia di pratiche religiose, finisce per modificare l’indole e le abitudini dei napoletani, accrescendone il conformismo. Un secolo dopo, le drammatiche condizioni economiche della popolazione culminano nella rivolta di Masaniello (Tommaso Masaniello, 1620 – 1647), il momento cruciale della storia napoletana in cui il cosiddetto “popolo grasso”, cioè la borghesia, potrebbe allearsi con la plebe, ma preferisce sottomettersi ai viceré per lucrare cariche e onori; questo nell’epoca in cui in Olanda, Gran Bretagna, Francia il ceto medio si apre alla rivoluzione capitalistica, mentre Napoli avrà sempre meno imprenditori e sempre più avvocati, giudici, burocrati, “umanisti”. Nel 1656 le pessime condizioni igienico-sanitarie culminano in una spaventosa epidemia di peste che annienta circa la metà della popolazione; ad aggravare la situazione è intervenuto, decenni prima, un assurdo provvedimento del viceré, a causa della preoccupazione per l’ordine pubblico, ovvero il divieto di edificare fuori dalle mura urbane.
Questo provvedimento resterà in vigore fino al 1716 e trasformerà Napoli in un agglomerato caotico e malsano, gettando le premesse per la disgregazione del tessuto urbano che conoscerà il suo culmine a metà del secolo scorso. Ma se tanti duri colpi si abbattono sulla città, la vitalità e il genio della sua gente appaiono indiscutibili. Il Settecento segna una splendida rifioritura della cultura, dell’arte, del civismo, in coincidenza con l’avvento del primo Borbone, il futuro Carlo III, figlio del re di Spagna e di una magnifica e indimenticabile gentildonna parmense, Elisabetta Farnese. Succeduto ai viceré dopo la fuggevole parentesi dell’occupazione austriaca, Carlo di Borbone ottiene dal padre la completa indipendenza per sé e per i suoi successori.
La sua orgogliosa concezione della regalità lo induce ad attuare una serie di riforme, a trasformare la città sulla base di ambiziosi criteri che hanno già ispirato Luigia XIV in Francia, a favorire le arti e la cultura, a promuovere i primi scavi a Pompei ed Ercolano. Sorgono così luoghi simbolo di bellezza e di arte: il teatro S. Carlo, la Reggia di Capodimonte con l’annessa fabbrica di preziose porcellane, la Reggia di Caserta, strade e piazze. Napoli torna europea grazie ai suoi architetti (Luigi Vanvitelli), ai suoi musicisti (Scarlatti, Pergolesi, Cimarosa, Paisiello), ai suoi pittori (Luca Giordano, Mattia Preti, Francesco Solimena), ai suoi intellettuali (primo fra tutti Giambattista Vico, poi Giannone, Genovesi, Galiani). La politica di re Carlo sarà seguita per qualche tempo dal figlio Ferdinando, ma la fortuna non dimora a lungo a Napoli.
Alla fine del XVIII secolo, la Rivoluzione Francese semina il terrore tra le teste coronate. Ferdinando di Borbone, che ha sposato la sorella di Maria Antonietta, si spaventa più degli altri monarchi europei e tronca di colpo il corso riformista. La plebe lo adora e sposa la causa del trono e del fanatismo religioso, solo uno sparuto gruppo di Giacobini proclama, nel 1799, la Repubblica Partenopea, nel momento in cui l’esercito francese occupa il Mezzogiorno e costringe i borbonici a rifugiarsi in Sicilia. Pochi mesi dopo Ferdinando ritorna sulle navi dell’ammiraglio Nelson, mentre l’armata contadina della Santa Fede guidata dal cardinale Ruffo di Calabria, risale lo Stretto fino alla capitale. I patrioti giacobini finiscono sul patibolo, come Mario Pagano, Domenico Cirillo e altri; lo storico Pietro Colletta cerca scampo all’estero. La parentesi della Restaurazione però dura poco, nel 1806 le armate napoleoniche portano sul trono di Napoli Giuseppe Bonaparte, che l’anno seguente diventa re di Spagna e affida il trono a Gioacchino Murat, il comandante della cavalleria a cui l’imperatore ha concesso la mano della sorella Carolina. Il “decennio francese” sarà spezzato dal dramma di Waterloo, e sarà un’altra epoca di splendore e progresso per la città.
Murat si innamora del suo ruolo e della capitale, apre strade e piazze, fonda istituti di educazione, abbatte la feudalità, introduce il divorzio, chiama i migliori ingegneri a collaborare col suo governo, forma un esercito. Quando “tradisce” il Bonaparte firmando l’accordo con l’Austria, lo fa per difendere il trono e la città di Napoli che così faticosamente ha risollevato dalla sua precaria condizione. Il tragico epilogo della sua avventura, la fucilazione a Pizzo Calabro, suggella un’altra sconfitta della città o almeno della sua parte più evoluta.
La seconda Restaurazione è meno sanguinosa, ma più opaca della prima, più plumbea: Napoli torna provinciale, sonnolenta, rassegnata ad una vita bonaria ma angusta. L’abisso fra i borbonici e i liberali, fra la plebe e i “galantuomini”, fra tradizione e progresso, diventa sempre più profondo, né valgono molto le rivoluzioni del ’21 e del ’48, che anzi accrescono la diffidenza e la paura di Ferdinando II. Il popolare “re nasone” prese il nome di Ferdinando IV re di Napoli, uomo non amante della cultura, che si chiude in una politica mediocre e si taglia fuori dalla lotta di liberazione nazionale. Sarà così il re di Sardegna, sostenuto dall’abilità di Cavour, dal coraggio di Garibaldi e dalla passione civile di Mazzini, a fare l’unità d’Italia.
Il 7 novembre 1860, il condottiero dei Mille entra a Napoli, accolto da una folla entusiasta. Cinque mesi dopo, il 14 febbraio 1861, al termine di una dignitosa difesa “Francischiello” e la sua giovane sposa Maria Sofia lasciano la fortezza di Gaeta, ultimo baluardo della resistenza borbonica, per un esilio senza ritorno. Il re ammonisce amaramente i suoi ex sudditi: “ai napoletani rimarranno solo gli occhi per piangere”. L’invettiva aveva qualcosa di profetico, perché in effetti l’impatto della città con il nuovo regime sarà disastroso. I Piemontesi che hanno rispedito Garibaldi a Caprera per limitare il suo impatto rivoluzionario, non conoscono e non amano Napoli. Ignorano la nobiltà delle tradizioni giuridiche della città, impongono leggi e codici incomprensibili per i napoletani. Senza badare alle fragilità delle strutture economiche, sostituiscono l’amministrazione fiscale e burocratica a quella saggia, agile, paternalistica dei borbonici. Tutti i risparmi in oro del Banco di Napoli confluiscono a finanziare l’industria del Nord, un fatto acclarato che noi d’oltre Po facciamo fatica ad ammettere.
Occorrono almeno vent’anni perché la città cominci ad assorbire il trauma della “piemontizzazione”, come l’ha definita il duca di Maddaloni. L’epidemia di colera del 1884 mette a nudo le terribili condizioni igieniche, sanitarie, economiche, morali in cui lo Stato italiano lascia gli abitanti della città, suscitando tra l’altro l’ira di Matilde Serao, la grande scrittrice e giornalista che firma un reportage memorabile sul ventre di Napoli. Il governo decide allora di porre mano al risanamento delle zone urbane più depresse e, anche se in modo troppo lento (la situazione della plebe rimane disperata), qualcosa comincia a muoversi tra il 1885 e il 1915. La Napoli borghese di Matilde Serao e di suo marito Eduardo Scarfoglio conosce un’altra delle sue epoche felici, un rigoglio di eleganza e di allegria, una fioritura di estri poetici e musicali. Sebbene il processo di unificazione sia ormai in fase avanzata in tutta Italia, le espressioni migliori della rinascita napoletana sono dialettali (Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo e altri). Dialettale è per lessico e ispirazione, per senso comico e gestualità, il teatro della Belle Époque che si fa moderno con Eduardo Scarpetta sul modello del repertorio boulevardier di Parigi, ma si affina e umanizza sulle tavole del varietà, da cui usciranno negli anni i suoi grandi artisti: Raffaele Viviani, i fratelli De Filippo (Eduardo in particolare) e Totò. La Prima Guerra spazza dai caffè, dai teatri, dalle affollate vie di Napoli la spensieratezza di questo suo rinascimento culturale. La guerra prima e il regime poi, impongono ai napoletani regole e abitudini che cozzano con il loro spirito libero. Ad alimentare il sogno di una Napoli che è ancora se stessa ci pensano Benedetto Croce e tanti altri intellettuali, poco inclini a piegare il capo. La Seconda Guerra è una vera catastrofe per Napoli, i bombardamenti distruggono le case, sconquassano le fabbriche, il popolo è ridotto alla fame. Alla fine di settembre del 1943 vi è l’insurrezione della città contro i Tedeschi; in quattro giornate di guerriglia urbana il popolo di Napoli li caccia. Arrivano gli Alleati che portano con sé sofferenze, smarrimento morale, finte illusioni, raccontate crudelmente e magnificamente da Curzio Malaparte nel romanzo La pelle. Quando arriva lo Stato, la Repubblica, Napoli è una città da ricostruire, da recuperare. Le contraddizioni, tuttora, rimangono enormi. La città continua ad essere bellissima e problematica: la speculazione edilizia, l’inquinamento industriale, l’incuria degli amministratori, l’obsolescenza dei servizi, distruggono il tessuto urbano e sociale della città, sconvolgono il paesaggio, avvelenano l’aria e il mare. L’organizzazione turistica che privilegia la Costiera Amalfitana, Sorrento e le isole, non fa abbastanza per una città ricca di monumenti e di storia come Napoli. Il peso della criminalità organizzata blocca lo sviluppo, annienta le risorse umane che tanto potrebbero fare e dare alla collettività. Napoli è diversa da tutte le città del mondo, ma i suoi problemi sono gli stessi, a tratti più grossi e tragici. La città dei panorami spettacolari, unici al mondo – Posillipo, Mergellina, Castel dell’Ovo, via Manzoni, Via Caracciolo, Via Lucia, S. Elmo, Capodimonte – ci fa cullare tra mille contraddizioni, mille storture, però non appare affatto trascurata come il pregiudizio vorrebbe. Il visitatore non può applicare a Napoli i parametri abituali del turista. Il turismo si fa a Sorrento o nelle isole, a Napoli si vive una profonda esperienza. La si ama o la si detesta: io l’amo, come già detto, fin dall’infanzia, prima di averla vista. Questa è una città che va vissuta, letta, ascoltata, ricercata nel cinema e nell’arte, nella musica e nella poesia, nel teatro. A Napoli il rischio più grande è dimenticare da dove si è venuti, per perdersi in una dimensione unica al mondo.