2 Maggio 2019

Nell’esultanza di maggio: Beltane e May Day

By admin

In molte regioni italiane il Calendimaggio, la festa stagionale di primavera che trae il suo nome dal mese corrente dalle calende romane, si seguono rituali antichi con doni propiziatori, la presenza di fiori e piante verdi, e di alberi simbolici (ontano e maggiociondolo); questi sono rituali divinatori che si perdono nella notte dei temi, estremamente affascinanti e con un alone di mistero. A questi rituali si sono spesso sovrapposte le festività cristiane, e raramente si ha coscienza delle loro origini. Per i Celti il primo maggio era una festività essenziale, dedicata al dio Beli o Belenos, la divinità solare paragonabile all’Apollo greco, ed era la festa del fuoco. In essa si celebrava l’abbondanza della natura, giunta alla massima fioritura. Il nome di questa importante festività era Beltane e si celebrava precisamente nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio. La festa di Beltane e quella di Samuin (31 ottobre) dividevano l’anno in due parti uguali, la metà chiara e la metà scura. La prima era caratterizzata dalla luce e dalla bella stagione, la seconda dal buio e dal freddo. Beltane era conosciuta anche come Cètsamain e il fuoco in tale contesto aveva una funzione di particolare rilievo.

Nel corso della cerimonia venivano accesi grandi falò, usanza questa che è penetrata storicamente nei nostri territori ed è diventata anche tradizione pasquale. Il bestiame con le corna veniva fatto passare in mezzo ai fuochi, in un rito purificatorio destinato a proteggere gli animali dalle possibili pestilenze estive e da ogni altro malanno. Come si sono dunque diffuse e come sono sopravvissute al tempo queste usanze pagane? Occorre fare un notevole salto temporale a ritroso per provare a spiegarle, e lo farò raccontando in particolare la Britannia e i suoi popoli. All’arrivo dei Romani nella Britannia, i Celti che qui erano radicati, seguivano la guida dei loro sacerdoti, i druidi, e adoravano la quercia, fondavano la loro religione sull’adorazione della natura, della sua spontaneità e fecondità. La liturgia celtica si basava su riti connessi ai cicli vegetativi, al ritmo delle stagioni, all’azione del sole, alle ricorrenze dei raccolti e delle semine. Questi rituali erano talmente radicati che, in epoca ormai cristiana, gli evangelizzatori non potendoli estirpare dovettero incorporarli nelle usanze cristiane. Quindi ancora oggi molti di questi riti e usanze, per i quali si è persa la coscienza del significato originario, sono osservati da tanti popoli e in particolare nel Regno Unito sono parte del folclore. Nelle usanze contadine, nelle feste annuali, nelle celebrazioni della primavera e dell’inverno, il sentimento antico si è perpetuato nel tempo. Nei vari paesi e villaggio dell’Inghilterra, del Galles, della Scozia, il May Day è sempre stato una celebrazione importante. Per i Celti tutte le celebrazioni avevano al centro gli alberi, intesi come divinità benefiche, dispensatori di vita, segni tangibili della nascita della terra.

 

Tagliare a primavera rami d’albero e porli sulla casa significava portare nel villaggio la forza vivificatrice dello spirito arboreo. Da queste e altre usanze nacquero le tradizioni dell’albero di maggio, il Maypole, e l’elezione della reginetta di maggio. Ben presto l’albero vero e proprio divenne un palo variopinto variamente adornato. I puritani dopo la Riforma si opposero a queste feste campestri, giudicandole occasioni di peccato e divertimento incontrollato, cosicché hanno riempito le biblioteche dei loro scritti di condanna, dandoci la possibilità di conoscere lo svolgersi dei rituali. Lo scrittore Philip Stubbes, nella sua “Anatomie of Abuses”, pubblicata nel 1583, racconta scandalizzato come il primo maggio, a Pentecoste, e in altri giorni, giovani e vecchi, uomini e donne, se ne andassero di notte per i boschi, monti e colline, vegliando in passatempi vari, tornando al mattino con rami e fronde. Allo scrittore pareva indubbia la presenza di Satana in queste riunioni, e con particolare disgusto parlava di come molte delle ragazze che tornavano a casa in comitiva, non erano più “intatte”.

La repressione fu dura e ciò che è rimasto di quella usanza, col tempo, è diventato innocente e folcloristico. Nelle ultime sere di aprile si può assistere ai canti tradizionali per le strade di alcuni paesi, specialmente nel Lancashire e nel Cheshire. Se l’albero di maggio riflette la credenza dello spirito arboreo incorporato alla pianta, vi sono altri usi complessi che dipendono da un altro tipo di riti pagani, in cui lo spirito arboreo era visto incorporato in un uomo o una donna. Di qui l’usanza della reginetta o della dama di maggio, di padre maggio, o di personaggi analoghi; l’eletta o l’eletto erano adornati di foglie o ghirlande di fiori. Usanze molto simili le troviamo anche alle nostre latitudini, dove operava la Controriforma con punizioni tremende, inclusa la morte, per chi praticava certi riti. Eppure, molto di ciò che oggi chiamiamo folclore, è sopravvissuto con le festività cristiane sovrapposte e con il rischio di scomparire per sempre, regalandoci una prospettiva storica e anche antropologica diversa sul nostro passato.

Sia in Istria che in Friuli permane infatti la tradizione dei fuochi la notte del 30 aprile; ricordo fin dall’infanzia molti fuochi accesi sulle colline intorno a casa mia, oltre ai falò che si facevano in paese. Mio padre rammentava la tradizione di far passare il bestiame con le corna in mezzo ai fuochi, con lo scopo di purificarlo, un’usanza questa che si è persa in epoca recente. Sul Carso, ma in particolare a San Dorligo della Valle, la tradizionale Majenca della comunità slovena è la più visibile ricorrenza che unisce il nostro territorio al Nord Europa e alla tradizione celtica. L’albero di primavera, che anche qui rappresenta la fertilità e la gioventù, diventa il simbolo stesso dell’usanza, in comunione con lo spirito arboreo di popoli lontani nello spazio e nel tempo.

Riflettere sulle radici, le tradizioni di tante ritualità diffuse, diventa un modo per conoscere il percorso che ci ha portato fino a qui, ci ha reso ciò che siamo, e ci consente di avere una visione più ampia della nostra storia.