Risorgive del Timavo, luogo di culti antichi e Grande Guerra
“Antenore, scampato agli Achei, poté entrare nel golfo illirico, spingersi in modo sicuro nel regno dei Liburni e superare le sorgenti del Timavo che simile a un mare impetuoso erompe dalla montagna per nove bocche con alto frastuono e inonda i campi di un’acqua risonante.”
Virgilio (Eneide)
Trieste è circondata da paesaggi carsici che a tratti si ricoprono di vegetazione, di alberi dai fusti esili, di piante tipiche di questa zona. Le rocce precipitano in mare lungo la costiera, regalando al visitatore scorci tra cielo, acqua e pietra che solo qui si possono ammirare. Poi vi sono i corsi d’acqua sotterranei che fin dall’antichità hanno stupito gli abitanti che li veneravano come divinità. Uno di questi posti, a mio avviso il più suggestivo, si trova a San Giovanni di Duino dove si incontrano le risorgive del fiume Timavo.
Uno spazio verde, circondato da maestosi cipressi, pioppi e platani e il fiume che risorge dopo aver percorso circa quaranta chilometri sottoterra. Il Timavo nasce lontano da qui, nei pressi delle pendici del Monte Nevoso, percorre cinquanta chilometri prima di inabissarsi nelle grotte di San Canziano. Da qui inizia un percorso fatto di venticinque cascate consecutive, per poi scomparire nuovamente; le sue acque riappaiono infine a San Giovanni al Timavo, dove le risorgive fanno riemergere il fiume con impeto. Fin dall’antichità quest’area fu un importante luogo di culto: la presenza di un fiume che sgorgava dalla terra aveva stupito e anche impaurito le popolazioni dell’epoca. Si veneravano Ercole, Saturno e il dio Timaveus. Il grande poeta Virgilio menziona il Timavo già nell’Eneide parlando di “nove bocche”, mentre altri ne contano solo sette.
La prima forma di occupazione stabile di quest’area risale all’età del ferro, intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., dovuta principalmente alla presenza di un approdo naturale che sfruttava il breve corso del fiume oppure il vicino bacino, e naturalmente alle sorgenti d’acqua potabile che assicuravano un agevole rifornimento. Gli abitanti potevano essere un incrocio di Veneti e Istri, certamente già allora era un’area di frontiera dove gli elementi veneti si fondevano e si integravano con quelli presenti in Istria. Tra il VI e il IV secolo a.C., lo scalo del Timavo era sicuramente vitale, con attività di commercianti greci e magnogreci. Del culto di Diomede al Timavo ce ne parla Strabone, ed è collegato alla presenza di un’area sacra a lui dedicata, propagatasi lungo le coste dell’alto Adriatico per influsso della politica greca e poi di quella siracusana. La figura dell’eroe viene usata per stringere alleanze con le popolazioni autoctone, mirando ad instaurare una forma di controllo sulle rotte commerciali dell’Adriatico. In pratica dove si individuava un punto chiave sotto il profilo commerciale, la figura di Diomede veniva utilizzata come strumento di propaganda per stabilire rapporti e alleanze con le genti non greche dell’Adriatico. Anche la figura di Antenore, tradizionalmente legata al Timavo (lo leggiamo in Virgilio), potrebbe nascondere contatti antichissimi tra i Focei, i primi navigatori greci e genti di stirpe veneta. Con il II secolo a. C., l’area del Timavo entra nella zona d’influenza romana. Le guerre tra Romani e Istri furono tre, la seconda (178 – 177) riguardò da vicino l’area del Timavo, sede di uno dei primi scontri diretti del quale ci parla Tito Livio. I Romani ampliarono il culto del Timavo con la costruzione di monumenti sacri e votivi. Per tutto il periodo imperiale il sito mantenne il suo carattere sacrale: dalle epigrafi e dal materiale archeologico sappiamo che qui si veneravano Ercole, Saturno, la Spes Augusta, Libero Augusto ma soprattutto il dio Timaveus.
L’importanza dei culti si comprende analizzando la leggenda di Antenore al Timavo, sconosciuta ad Omero, affermatasi parallelamente a quella sull’origine dei Veneti come discendenti degli Eneti della Paflagonia, giunti nell’area adriatica al seguito del troiano Antenore e dei suoi figli. La leggenda avrebbe poi avuto diffusione nel mondo greco tramite Sofocle. La narrazione dell’origine troiana dei Veneti aveva lo scopo di stabilire legami di stirpe con i Romani, in un’alleanza cruciale nello scontro con i Galli. Il Timavo dunque diventa il luogo dello sbarco di Antenore, dove inizia la sua avventura occidentale. Anche Livio e Virgilio, come abbiamo visto, ne trasmettono memoria, mettendo in relazione l’arrivo di Enea sulla costa tirrenica con quello di Antenore sulla costa adriatica, come se si trattasse di destini paralleli. Nella testimonianza di Strabone troviamo l’altro culto, quello di Diomede presso il Timavo che avrebbe previsto (come accadeva anche in Veneto) un sacrificio di cavalli; in realtà, per quanto riguarda il Timavo, Strabone si limita a citarne la presenza.
L’area del Timavo, zona di confine per eccellenza, come lo stesso Strabone afferma, punto di passaggio di molte vie commerciali già in tempi protostorici, rispondeva alle caratteristiche tipiche di tale culto, diffuso in aree confinarie e marginali del mondo greco. Nel corso del IV secolo d.C., con l’avvento del cristianesimo, fu edificata una piccola cappella vicina al corso del fiume, destinata a diventare la basilica di S. Giovanni in Tuba. Negli anni turbolenti delle invasioni barbariche, gli Avari e gli Ungari abbatterono un cenobio dei Benedettini, poi ricostruito dal patriarca di Aquileia Urico I, successivamente distrutto da incursioni turche.
La chiesa che oggi possiamo ammirare in questo incantevole luogo, costituisce un notevole esempio di stile gotico, voluto dai conti di Walsee, signori di Duino, tra il 1399 e il 1472. Purtroppo, durante le guerre del secolo passato la chiesa fu gravemente danneggiata e si dovette ricostruirla nel dopoguerra. Presumibilmente il pregevole edificio sacro sorge sulle basi del tempio pagano, di cui le testimonianze epigrafiche, riutilizzate negli edifici successivi sono tuttora visibili. La lapide dedicata alla Speranza (Spes) Augusta che accerta la dedica di Sacconio Varrone, tribuno della Coorte Miliaria Dalmata, faceva parte di un sacello romano andato distrutto, sulle cui basi sorse una basilica paleocristiana.
La base di questo edificio è visibile nel presbiterio della chiesa attuale: resti di mosaico del V secolo d.C. con elementi ottagonali caratteristici sono simili ad altre strutture, ad Aquileia e nel Battistero di Grado.
Gli arredi in marmo ancora visibili nella chiesa risalgono all’età paleocristiana e altomedievale. Costruita verso la metà del V secolo, l’antica basilica accolse le reliquie dei Santi Giovanni Evangelista e Giovanni Apostolo, alle quali si aggiunsero anche quelle dei Santi Stefano, Biagio, Lorenzo e Giorgio. Dopo le distruzioni barbariche, il nuovo edificio fu ampliato con l’aggiunta dell’abside gotica. Un importante lavoro di restauro risale al 1519, per volontà di Giovanni Hoffer, Capitano di Duino, mentre il campanile è datato 1642. Il toponimo “tuba” tuttora utilizzato deriva forse da tumba, in considerazione delle lapidi rinvenute nel sito, o dal vocabolo latino tuba che designa un condotto naturale o artificiale delle acque, logicamente in relazione con il fiume che sgorga accanto. Durante la prima guerra mondiale qui ci fu una battaglia tra gli austro-ungarici e il battaglione Toscana (i cui uomini erano detti “lupi di Toscana”).
In un’audace e tragico assalto al colle quota 28, appena attraversato il fiume, morirono molti soldati che provarono ad issare il Tricolore in direzione di Trieste; all’azione partecipò anche Gabriele D’Annunzio che poi scrisse un toccante elogio funebre per Giovanni Randaccio al Cimitero degli Eroi di Aquileia.
Oggi, a testimonianza di quello spirito patriottico smarrito nel tempo e spesso ridicolizzato da chi non lo ha saputo sostituire con altri valori, ci sono i monumenti dedicati ai “lupi” e ai caduti della Grande Guerra.