10 febbraio 2020: un viaggio nel ricordo
Questo racconto è frutto di un incontro fortuito, come solo ai tempi di internet può accadere. Il mio blog è letto da tante persone, anche dall’altro capo del mondo, e molti sono gli istriani esuli che lo seguono. Uno di loro è Piero De Cleva, un “ragazzo” classe 1935 che naviga sul web come e meglio dei ventenni. L’interesse per l’Istria, per le nostre comuni radici, ci ha portato a conoscerci, a fidarci, e Piero mi ha fatto il dono delle sue memorie, della storia familiare, del dramma occorso a suo padre tanti anni fa e anche delle foto dell’archivio privato che accompagnano il testo. Negli stessi giorni in cui si compiva il martirio di Norma Cossetto, a pochissima distanza, il papà di Piero viveva il suo angoscioso dramma, per fortuna non conclusosi nella medesima tragedia. Questo è il mio contributo per il Giorno del Ricordo, un impegno costante che segue sempre la stessa modalità: raccontare le foibe e l’esodo attraverso le memorie di chi quella tragedia l’ha vissuta sulla propria pelle.
Siamo partiti quasi senza parlare, in un giorno anonimo uguale a tanti altri; guidavo io, accanto a me Romana, sul sedile posteriore Guido, il fratello maggiore. Eravamo diretti al luogo natale di nonno Giorgio a Cropignacco, piccolo paesino del comune di Lanischie nel cuore della Ciceria. Un percorso lungo e tortuoso, attraverso le frontiere che separano nazioni un tempo unite nel sogno jugoslavo di Tito, oggi separate da reti metalliche sovrastate da rotoli di filo spinato che corrono accanto alle strette strade di montagna e stringono il cuore in una tenaglia di oscuri ricordi e profonde paure. Il percorso era un susseguirsi di memorie, di macchia mediterranea che si perde tra le rocce del Carso, di pini verdissimi, di ginestre sferzate dal vento, di erbe amare e vipere variopinte che si insinuano nella pietra calcarea, di abissi nel terreno che si perdono in cunicoli bui, profondi e umidi. Ed ecco che ci apparve Pinguente, inerpicato sul colle, con le sembianze del borgo medievale perduto nel tempo. Ai piedi della cittadina la casa del nonno che qui visse a lungo, dove io stesso ho abitato quando andavo alle elementari.
Ci rivedemmo in sella al cavallo condotto dallo zio, o quando la sera tornava il gregge dal pascolo e Romana coccolava gli agnellini; e il rapporto coi nonni – saggi, generosi, onesti che riposano nel cimitero di Pinguente -, ci parve ancora così vivo, così presente, come se a momenti il loro abbraccio potesse rincuorarci. Nonno Giorgio, con le sue forti mani, poneva i crocefissi lungo le strade, lasciando segni di spiritualità ai passanti, luoghi di preghiera per i viandanti, simboli che riassumono nella loro semplicità tutta la devozione del popolo istriano. Negli anni bui del cosiddetto “potere popolare”, il crocifisso lungo la strada di Pinguente fu barbaramente distrutto, ridotto in pezzi, in decine di schegge che la gente raccolse una per una. Fu ricostruito e distrutto ancora, fino a quando zio Giorgio, il fratello della mamma, non lo recuperò e lo conservò a casa, in attesa che finisse la furia antireligiosa. Quando lo zio morì, mia madre mi fece dono di quei frammenti che un buon frate di Treviso ricompose e che io conservo con molto affetto nella mia casa di Mogliano Veneto. Il viaggio verso Cropignacco ci mise pace nell’anima, tra quei tornanti impetuosi e il verde selvaggio di una natura mai domata ci sentimmo bambini felici prima delle brutture della vita. Poi, lasciate le terre del nonno materno, ci attendeva la casa natale di Villa San Marco a Visignano. Lontano dalle montagne, vicino al mare di Parenzo, tra le campagne rigogliose della nostra infanzia, siamo andati alla ricerca di noi stessi. Qui riposano le spoglie degli avi paterni, sono racchiuse le memorie della famiglia, persistono le mura di quella che era la nostra casa.
Nel cimitero molte sono le tombe di parenti e amici e in qualche modo vi si conserva la storia dell’intera comunità. Camminando in mezzo a tutti quei ricordi, mi sono ritrovato davanti ad una grande e pomposa tomba marmorea, una specie di monumento pagano dedicato ad una personalità che si credeva divina o per lo meno soprannaturale. Vi è sepolto un uomo del luogo che aveva spadroneggiato nel borgo dopo l’occupazione jugoslava e che ricordo molto bene. Un giorno irruppe a casa nostra, doveva controllare se tenessimo il ritratto di Tito che era d’obbligo. Perquisendo l’abitazione giunse nella mia stanza e vi trovò un paio di sandali di pelle bianca, appena consegnati dal calzolaio, che avrei indossato per la Comunione. L’uomo disse con un ghigno cattivo: “Questi vanno bene a mio figlio” e se ne andò portandoseli via. Fu una grave umiliazione e d’un tratto una sensazione sgradevole mi pervase, mi fece capire che non ero voluto e che avrei fatto la vita dell’emarginato nella mia terra. Il ricordo ne risvegliò altri e altri ancora. Pensai a mio padre, alla sua vita da esule in giro per l’Italia, con la famiglia al seguito, le bocche da sfamare e una vita da ricostruire. Ricordai la sua riluttanza a parlare di ciò che gli era accaduto, come se rievocare quei giorni di terrore e di morte potesse rigettarlo nell’abisso della paura che lo ha sempre perseguitato. Mi rividi ragazzino in quel lontano 1943, quando papà era chiuso nella sala da ballo del paese assieme ad altri sventurati e noi gli portavamo qualcosa da mangiare, pregando Dio perché ci aiutasse.
Fu il maestro Antonio Lo Mastro che ruppe il silenzio su quelle terribili giornate, parlandone e scrivendo le sue memorie. Era un uomo dedito alla comunità, considerava l’insegnamento una vera e propria missione. Quando i tedeschi presero il controllo del paese, si impossessarono subito dell’aula scolastica e cacciarono gli alunni della scuola. Il maestro Lo Mastro non si arrese alla loro prepotenza e con spirito creativo, tipico dei napoletani, allestì la scuola nella sua abitazione e istituì l’orto didattico per i bambini, a proprie spese.
Erano giornate difficili e piene di angoscia, la gente stremata dalla guerra aveva perso le speranze. Quando le campane annunciarono l’Armistizio, tutta la gente scese in strada e iniziò ad abbracciarsi, a gioire, pensando che la resa dell’Italia avrebbe fatto terminare il conflitto. Quel senso di sollievo purtroppo durò poco, almeno per gli italiani. A mezzanotte del 10 settembre 1943 i partigiani di Tito fecero il loro primo ingresso a Visignano, armati di fucili, di rastrelli, di pali e di qualsiasi altro oggetto che potesse arrecare danno. Procedevano con passo lento, cadenzato, sospettoso, guardingo: pareva una processione funebre piuttosto macabra. Si diressero alla caserma dei carabinieri e della guardia di finanza per chiedere l’immediata consegna delle armi, della caserma e del comando, con la promessa dell’incolumità. Sul momento i militari rifiutarono, però il giorno dopo i partigiani rifecero le stesse richieste minacciando di mettere a ferro e fuoco il paese se non avessero accettato; non ricevendo nessun aiuto dai superiori, i comandi furono costretti a cedere le armi e la caserma. Il controllo del paese era dei partigiani e quello stesso pomeriggio si presentarono a pattuglie armate casa per casa, con l’intento di disarmare la popolazione. La gente si era chiusa tra le quattro mura in preda al panico e tutte le vie d’accesso al paese erano bloccate da guardie armate: non si poteva né entrare né uscire. Poco dopo i partigiani furono coinvolti in uno scontro sulla Crociera di Tizzano, sulla strada che collegava Trieste con Pola, con una colonna di autoblindo dei tedeschi. Caddero sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche a decine, i loro cadaveri erano disseminati nei campi e un centinaio furono fatti prigionieri e passati per le armi. Mio padre e gli altri uomini del paese pensarono che a questo punto nessuno sarebbe venuto a prelevarli nelle case, come si sospettava avrebbero fatto, ma il giorno dopo si seppe che le bande partigiane si stavano riorganizzando e che sarebbero finiti comunque nelle loro mani. Fu così che papà Olivo e lo zio Biante salirono su un automezzo dell’INT (Istituto Nazionale Trasporti) assieme ad altri paesani, carabinieri, guardie di finanza, soldati, per raggiungere Trieste. Trovarono ospitalità da parenti e amici e presero a riunirsi la sera in un locale, cercando di trovare qualche informazione sul paese. Seppero che il podestà, il segretario politico e altri rimasti a casa conducevano una vita regolare, senza pericoli. Si rincuorarono e pensarono che la situazione fosse del tutto sotto controllo. Dopo una settimana di relativa calma, la sera del 20 settembre, giunse a Trieste la moglie del maestro Lo Mastro. Era esausta, aveva camminato per molti chilometri e cercato mezzi di fortuna per raggiungerli. Il comando partigiano mandava attraverso di lei un messaggio inequivocabile: se non rientravano subito a casa se la sarebbero presa con le loro famiglie e avrebbero distrutto il paese. Decisero tutti per il ritorno, anche perché era stata promessa loro la libertà. Raggiunsero Buie d’Istria con una corriera, poi noleggiarono un’autovettura fino a Villanova del Quieto dove trovarono il primo blocco di guardie che controllarono i documenti. Giunsero poi a piedi a Torre di Parenzo e si diressero al comando, sapendo che qui un loro paesano ricopriva il ruolo di maggiore. L’uomo si mostrò molto risentito, deprecò quella che per lui non era solo una fuga ma un vero e proprio atto di ribellione al movimento partigiano. Delusi e amareggiati arrivarono a Visignano con un carro di contadini. Appena giunti in paese furono condotti al comando dalle guardie; nessuno sembrò però redarguirli e furono mandati a casa con l’obbligo di rimanervi. Il giorno seguente le guardie li prelevarono e li condussero nuovamente al comando, dove avrebbero dovuto ascoltare il discorso di un tale comandante Bosè. Al comando attesero a lungo l’arrivo di questo fantomatico comandante che però non arrivò mai. Due tizi che gli giravano minacciosamente intorno tirarono fuori i revolver e glieli puntarono contro, cogliendoli di sorpresa. Pareva uno scherzo di cattivo gusto ma diventò una cosa dannatamente seria quando due del gruppo furono prelevati e condotti nel giardino sottostante, dove c’era l’ingresso ad una cella. Dovettero alzare le mani, furono perquisiti, privati del portafoglio, delle chiavi, di tutti gli oggetti personali. Uno per uno li perquisirono tutti e li rinchiusero in dodici nell’unica cella. Mio padre e lo zio si guardarono in silenzio, intuendo la domanda che si stavano facendo tutti: cosa ne sarebbe stato di loro? Qualcuno fumava una sigaretta per calmare i nervi, altri si appoggiavano al muro per non farsi sorprendere da un malore. Evidentemente era quello il discorso che gli volevano fare e il significato appariva chiaro. Intanto i carcerieri dicevano che un gran consiglio avrebbe decretato la loro sorte e così accadde di lì a poco, il consiglio si pronunciò a favore di una “assoluzione”; assoluzione da cosa poi? Non avevano fatto niente e i partigiani lo sapevano bene. Li tennero liberi per qualche ora in giardino, dato che altre persone furono arrestate e andarono ad ingrossare le fila, poi fu permesso alle famiglie di portare del cibo. La sera li trasferirono nella sala da ballo del paese, usata come magazzino per i cereali, e lì vidi mio padre e lo zio quando portammo la cena. Si dimostrarono di buon umore, scherzarono con noi, dissero in tono ironico alla mamma e alla zia di non piangere, perché i partigiani avevano intimato loro di non farlo. Anche se ero piccolo, sentivo che c’era qualcosa di forzato nel loro atteggiamento e la tensione in quell’ambiente si tagliava col coltello. Prima che ce ne andassimo papà mi prese da parte, mi accarezzò i capelli e disse sottovoce: “Sei un ometto Piero, devi comportarti bene e ubbidire alla mamma. Io tornerò appena possibile”. Lo disse con voce strozzata, piena di angoscia, anche se cercava disperatamente di dissimularlo.
Furono giorni tremendi, portavamo ai nostri cari i pasti e pensavamo a loro in ogni istante. I reclusi vivevano nella più assoluta incertezza in quella sala da ballo del palazzo municipale, proprio nella piazza del paese. Spiavano dalle fessure delle porte ciò che accadeva all’esterno e temevano di fare una brutta fine da un momento all’altro. Intorno al municipio c’erano decine di guardie armate e nessuno avrebbe potuto evadere, ma neanche potendolo fare non avrebbero condannato alla triste sorte gli altri. La situazione peggiorava di ora in ora e la soldataglia gridava per le strade: “Morte ai fascisti”. Erano soprattutto ragazzi molto giovani col fare da bulli, cantavano “Bandiera rossa” a squarcia gola e spesso battevano alle finestre e alle porte dei reclusi. Minacciavano di fare giustizia sommaria e di giocare con le teste dei fascisti: “Con le teste dei fascisti giocheremo alle bocce”. Tante volte i prigionieri venivano terrorizzati da colpi di fucile sparati nelle vicinanze, rendendo quella reclusione un incubo senza fine. Un giorno il caporione che si era dimostra più umano e comprensivo disse che, era dolente ma il comando aveva deciso per il loro trasferimento alle carceri di Pisino. Lo pregarono di lasciarli lì, lo supplicarono, ma fu irremovibile. Mio padre e gli altri sapevano che se fossero andati a Pisino non avrebbero fatto ritorno; si parlava già di tribunali del popolo, di giustizia sommaria, di foibe. Le donne prepararono le valigie con indumenti e viveri, esorcizzando così il terrore che provavano. La mattina del 3 ottobre i prigionieri furono svegliati all’alba, legati col filo di ferro a due a due, nella mano libera la valigia, e messi in marcia verso una destinazione ignota. Presero la strada in direzione Mondellebotte, un villaggio limitrofo; lungo il percorso li fermarono, in attesa che giungesse la decisione sulla loro vita o morte da una commissione radunata nel folto bosco circostante. Non decisero nulla e la marcia riprese. A Villa Persuri, piccolo villaggio di contadini, furono rinchiusi in un fienile dall’aria viziata, privo di luce e con solo due stretti buchi ai quali si aggrappavano a turno per respirare meglio. Le guardie non permisero nemmeno questo e furono costretti a sdraiarsi sulla paglia. Il giorno dopo il capobanda si dimostrò gentile e offrì loro della grappa, gesto che sembrò di buon auspicio; a pranzo giunsero anche le donne col cibo e tutto faceva ben sperare in una detenzione non violenta. Lo stesso giorno arrivarono altri prigionieri dal paese, anche un povero anziano asmatico che fu lasciato fuori dal tugurio. Alle tre di notte il capo della banda li svegliò e propinò loro un discorso sul comunismo e i suoi grandi successi nel campo sociale, invitando tutti col suo mitra ad assentire. Poco dopo partirono nuovamente, per dove non lo sapevano. Legati col filo di ferro si diressero lungo i sentieri nelle profondità del bosco. Dopo una lunga e faticosa camminata, il comando “Stoj!” (fermi!) terminò la marcia verso il nulla a Bueri, un fabbricato rurale nel bosco. Dal folto della selva sentivano delle voci, quelle del gran consiglio che decideva delle loro vite: alcuni volevano ammazzare un certo numero di prigionieri, altri parlavano di un sorteggio, altri ancora ne designavano i nomi. Li chiusero nel fabbricato isolato, fuori dal mondo, però almeno ben arieggiato. Non mangiavano dal giorno prima, del tutto emarginati, lasciati soli con gli spettri della paura. Poi la porta della prigione si aprì e tre guardie dissero che il comando aveva deciso di lasciarli liberi; nello stesso tempo uno di loro offrì ai reclusi una chianti di grappa. Si guardarono trasognati, sentirono la libertà a portata di mano dopo tredici giorni di prigionia senza aver commesso alcun crimine, alcun reato. Furono persino grati ai loro carcerieri, li ringraziarono cordialmente per non averli uccisi. Stavano per riprendere la via del ritorno a casa, quando un contrordine ribaltò la situazione: il comando non aveva ancora deciso nulla e andavano rinchiusi nuovamente in carcere. Fu chiaro che stavano giocando con le loro vite, con le loro angosce, e che probabilmente ne traevano grande godimento. Quel gioco crudele li gettò nella disperazione e nessuno pronunciò parola fino a quando non furono fatti uscire nuovamente. Fuori era il comandante in persona ad attenderli. Un uomo alto e magro, con gli occhi di ghiaccio e i lineamenti del volto duri, spigolosi; un uomo distante da loro, diverso, separato da un solco di cultura e ideali, da sentimenti opposti a quelli che fino ad allora avevano conosciuto. Li scrutò per qualche istante, poi si avvicinò al gruppo, fissandoli negli occhi uno per uno.
– Avete visto chi siamo e di cosa siamo capaci. Non immischiatevi mai negli affari politici che portiamo avanti, non interferite con i nostri piani altrimenti non vi useremo più la stessa cortesia -.
Girò sui tacchi e se ne andò nelle profondità del bosco da dove era uscito. Liberi dal filo di ferro, dalle guardie, dalle restrizioni, presero la strada del paese e lo raggiunsero quasi correndo. Le famiglie tutte li attendevano e fu un’esplosione di affetto, di abbracci, di lacrime di gioia. Era il 4 ottobre, giorno di S. Francesco, e tutti credemmo che il santo degli italiani li avesse salvati. Non era così però, non per tutti. Nel vicino paese di Santa Domenica la giovane Norma Cossetto, con altri sventurati, fu arrestata, stuprata e torturata nella scuola di Antignana e nella notte tra il 4 e il 5 ottobre, assieme agli altri prigionieri legati tra di loro col filo di ferro, fu gettata viva nella foiba di Villa Surani.
Fu il caso a risparmiare mio padre, lo zio e gli altri prigionieri, o forse una forza divina e cosmica che li mise nelle mani di un comandante che la pensava diversamente.
Di ritorno dal viaggio nel ricordo con i miei fratelli, mi sono interrogato sul senso delle nostre esistenze, del fato che ha giocato con le nostre vite come in una roulette infernale e che, alla fine, ci ha risparmiati. Lunghi anni mi separano da quegli eventi, tanta acqua è passata sotto ai ponti e oggi, al crepuscolo della mia vita, penso spesso a mio padre. Gli spettri che ha incontrato nella prigione, in mezzo ai boschi, forse non lo hanno mai abbandonato. Sapeva dell’orribile sorte capitata a molti altri e forse si considerava un miracolato. Non ne parlava mai, non ci rendeva partecipi dei suoi pensieri. Nei decenni in cui l’Italia e la sua mediocre classe politica hanno coperto tali crimini e ingiustizie, mio padre ha ricostruito la sua vita da zero, dando alla famiglia l’opportunità di riscattarsi del tutto, nella certezza di essere stato sempre un brav’uomo con la coscienza a posto. Sempre con l’Istria nel cuore, senza cedere mai al risentimento.