La leggenda dell’Amar de Clevo
Uno degli amari più noti del Friuli trae le sue origini da un’antica ricetta carnica, una commistione di alcol, zucchero, erbe officinali di montagna e un pizzico di leggenda. L’Amar de Clevo oggi è un prodotto certificato, imbottigliato secondo le norme vigenti e nato dalla collaborazione tra Tiziana Romanin, proprietaria di un albergo a Forni Avoltri e il farmacista Samuele Secchiero. Tuttavia, antica è la leggenda che riguarda questo elisir aromatico e che rimanda a un tempo in cui si credeva ai folletti, alle fate e alle streghe che con le erbe facevano magie. Il protagonista di questa storia è uno sbilf, un folletto dei boschi presente in molte leggende della Carnia.
Queste creaturine vivevano tra gli alberi mimetizzate con la natura, ma in alcuni casi anche vicino all’uomo, nei fienili e nelle stalle. La loro casa prediletta era la cavità di un albero, nel sottobosco, il rifugio e il riparo ideale per non essere visti.
Erano di piccole dimensioni, intelligenti, inafferrabili e sovente burloni. Agli occhi dell’uomo erano eternamente fanciulli, amanti dei giochi, delle danze, della musica; il carattere mutevole, come quello di un bimbo, li portava a fare scherzi oppure a portare il broncio. Uno di questi sbilf viveva lungo le rive del fiume Degano, in una piccola grotta molto confortevole dove si trovava bene. Raccoglieva i funghi al mattino, ancora bagnati dalla rugiada, e la sterpagli la sera per accendere il fuoco. La sua minuscola casa era provvista di tutto e non mancavano le scorte per l’inverno. Sfortunatamente da qualche tempo le notti non erano più tranquille in quell’idilliaco luogo: poco dopo il calar del sole, le fate o aganis si recavano nel medesimo punto del fiume per fare il bucato, facendo un chiasso insopportabile. Chi erano costoro? Come si manifestavano? Si trattava di magiche ninfe acquatiche della mitologia alpina, molto note in Carnia.
Il loro mito sembrerebbe derivare dalle ninfe romane, tuttavia è anche possibile trovare elementi della cultura germanica e celtica nella leggenda che le accompagna. Erano spiriti dei corsi d’acqua (fonti, fiumi, torrenti e ruscelli), dalle sembianze femminili.
Potevano essere giovani e attraenti fanciulle, oppure donne più mature ma sempre assai vivaci. Era possibile scorgerle nelle notti di plenilunio, quando si ritrovavano per le danze, vestite di bianco con le vesti che asciugavano alla luna.
Si narra che avrebbero insegnato alle donne la lavorazione della lana e agli uomini la trasformazione del latte in formaggio. Come lo scorrere dell’acqua, queste incantevoli figure erano mutevoli, in taluni casi buone e capaci di aiutare l’uomo, in altre estremamente perfide se offese. Il povero sbilf il più delle volte non riusciva a chiudere occhio per il chiasso che facevano e non era facile rimproverarle, dato il loro carattere. Stanco di quella situazione insopportabile, si decise a malincuore a lasciare la sua bella grotta in riva al fiume per cercare casa in un luogo più alto, lontano dalle agane e magari con la vista sulla valle. Portò con sé una bisaccia e poco cibo e partì di buonora. Mentre si arrampicava con difficoltà su un ripido sentiero (clevo), incontrò un’anziana donna che portava una gerla sulle spalle. Lei gli chiese: “Dove vai giovanotto, tutto solo e con poche provviste?”
“Me ne vado su in cima, nonnina. Cerco una casa tranquilla dove poter vivere”, rispose.
“Bene allora”, disse la vecchia posando a terra la gerla, “lascia che ti faccia dono di queste erbe propizie, saranno utili al battesimo (licof) della tua nuova dimora”.
Lo sbilf accettò di buon grado il dono dell’anziana e riprese il suo lungo cammino. Percorse un sentiero accidentato, fino a quando non giunse in cima e trovò un luogo tranquillo. Qui riperse fiato e si mise seduto su una roccia.
Grande fu la sua sorpresa quando aprì la bisaccia per tirare fuori le erbe e vide che queste erano diventate per magia un liquore. Assaggiò l’amaro e sentì gli aromi, i profumi e la forza delle erbe di montagna. Il liquido magico lo rinvigorì subito e lo sbilf si mise a danzare tra gli alberi, le rocce e l’erba e a cantare, accompagnato dalle note del vento. Qui trovò la sua casa, forse in un tronco d’albero o in una grotta, non ci è dato sapere; di sicuro era grato all’anziana e saggia strega della conoscenza donatagli.
Ho scritto questa breve e fanciullesca storia per regalare un sorriso e quel pizzico di magia a voi lettori, un aiuto modesto per affrontare i difficili giorni che stiamo vivendo. Pensiamo alle fate, ai folletti, alle streghe buone che hanno popolato i racconti della nostra infanzia; ricordiamo le anziane nonne che non ci sono più e la loro profonda saggezza, quell’anima della Grande Madre che ci accudisce, ci accarezza e rimbocca le coperte di stelle dei nostri sogni.