L’importanza del fatalismo e della lotta
“Ciò che non mi uccide, mi rende più forte”
Friedrich Nietzsche (Il crepuscolo degli idoli)
Ieri stavo facendo il solito giro con i cani nel mio quartiere, nell’atmosfera surreale provocata dagli arresti domiciliari, le mascherine, i distanziamenti isterici e una tale paura di morire che solo in Occidente si può percepire. Mentre respiravo a fatica attraverso quella dannata mascherina con gli elastici che segnano la pelle e gli occhiali da sole si appannavano, ho annusato un forte odore di pane bruciato provenire da una finestra aperta. Mi sono messa a ridere di gusto, divertendo i cani e passando per pazza per coloro che sbirciavano (come al solito) dai balconi. Da qualche giorno nella mia città sono diventati tutti panettieri, tanto che trovare la farina bianca e il lievito di birra al supermercato è una specie di “mission impossible”. Dai supermercati sono spariti i prodotti meno salutisti della terra, quelli per intenderci contrassegnati dalla patetica UE con il bollino rosso (parmigiano, farina bianca, carni rosse, ecc.) e sono rimasti tristemente snobbati i prodotti vegani, le bacche di goji, le gallette di riso e tutte quelle follie asiatiche (radici di zenzero cinesi, tofu, ginseng) che ci hanno propinato come superfood miracolosi e che ora nessuno si azzarda a comperare. Mi diverto ad immaginare tutte quelle donne dalle mani curate, con tanto di manicure e unghie smaltate, impastare maldestramente impasti appiccicosi, farli lievitare poco e male, cacciarli nel forno con la temperatura sbagliata e bruciare tutto con somma disperazione. Ebbene no miei cari, non si impara la vita di un tempo in un batti baleno, specie se i ristoranti, le pizzerie, i fastfood e gli agriturismi facevano parte della quotidianità o quasi. Perdere le tradizioni, le ricette delle nonne, la capacità di ritagliare un pizzico di tempo quotidiano per essere autonomi e indipendenti dal consumismo del mangia-e-fuggi, non è stata questa grande idea né un gran affare dal punto di vista economico, e ce ne accorgeremo. Peggio ancora aver sviluppato un attaccamento insano alla vita, tramutato in terrore puro della morte che non viene da tempo percepita come parte della vita stessa. Amos Oz ha intitolato uno dei suoi libri più celebri “La vita fa rima con la morte” ed è, per me, la frase più vera e rappresentativa che racconta la condizione umana. Da sempre ho percepito la morte e la vita in questo modo e sono grata all’educazione frugale, dura, inflessibile che ho ricevuto da piccola. Veder morire i cari nella propria casa, vegliarli tutta la notte, accompagnarli al cimitero mi ha consentito di sviluppare un rapporto giusto e fatalista con il fine vita. Così come fare il pane, la pasta, i dolci lievitati, qualsiasi preparazione casalinga, fanno parte del mio quotidiano da quando avevo otto anni.
L’autarchia è stata la mia maestra e il consumismo, in Jugoslavia, non sapevo nemmeno cosa fosse. Da tutte le esperienze negative si traggono insegnamenti preziosi, in quanto le difficoltà fortificano e plasmano l’essere, lo rendono coriaceo e competitivo. Nella povertà esplicita, profonda, crudele della mia infanzia, ho imparato le dure regole di una vita scomoda, in una casa che cadeva a pezzi, senza alcuna comodità e senza aver mai goduto di un pasto al ristorante, se non fino alla tarda adolescenza, o di una vacanza da qualche parte. Mio padre faceva tre lavori per mandare avanti la baracca, ma fino a quando mia madre non è venuta a lavorare in Italia in casa mancavano molte cose.
Non era così per tutti, ovviamente. Nei regimi, come risaputo, i servi vendono la loro fedeltà ad un prezzo e chi ne beneficia è disposto a pagare. Quindi a loro erano concessi dei benefici, diciamo così, dei privilegi anche su vasta scala che consentivano un tenore di vita spesso migliore di quello occidentale. Facevano shopping nei negozi triestini di un certo livello, mentre gli altri, se fosse andato bene, avrebbero acquistato i jeans sulle bancarelle; occupavano le posizioni professionali migliori senza alcun merito e senza provare disagio se schiacciavano i meritevoli strada facendo. Beneficiavano persino delle seconde case al mare (dette vikendice/case per il weekend) senza averle mai acquistate. Li ho invidiati per anni ma ora decisamente non è così. Deve essere dura risvegliarsi un bel giorno in un mondo diverso, dove il merito ha il suo valore ed è possibile essere licenziati, fare fallimento, essere messi da parte per far spazio a qualcosa di più interessante e nuovo, doversi comperare la casa o, molto semplicemente, camminare da soli. Ed è ciò che accadrà anche in Occidente, in modo meno traumatico ed epocale ma simile per molti versi, dopo la fine dell’età dell’innocenza iniziata col terrorismo, per arrivare alla pandemia attuale. L’uomo non è un essere immortale e l’occidentale non è immune dalle disgrazie e dalle sciagure solo perché economicamente sta meglio. Sì, sono verità universalmente note ma non interiorizzate, non fanno parte del modo di pensare e di vivere dell’uomo contemporaneo. Ed è per questo che vi invito, nel mio piccolo e senza alcuna presunzione, di ricercare questa verità, di guardarla in faccia senza tremare o provare terrore: la vita fa rima con la morte, come diceva Amos Oz, però questa è un’opportunità e non un limite. Mi sento incredibilmente fortunata, forte e serena proprio in questo momento di panico globale, perché il peggio non mi spaventa e l’idea della morte, della sofferenza, sono concetti che ho sempre sentito nel profondo. Ho voluto assistere mio padre mentre soffriva e lasciava questo mondo, mi sono persa nel suo dolore e poi ritrovata, rinascendo nuova e diversa e incredibilmente energica. Il vantaggio di dover lottare anche per le cose più banali, il buonsenso di non abbattersi quando la vita ti pone in una posizione svantaggiata, quando nasci nella parte sbagliata del mondo, sono sproni formidabili a non arrendersi e ottenere il diritto di esserci.
In quest’epoca di conoscenze virtuali mi è capitato di incrociare una mia coetanea istriana simile a me: un incontro che mi ha fatto molto riflettere. Valentina è una dantista e filologa di grande valore, scrittrice appassionata e ricercatrice, archivista meticolosa dall’ironia pungente. Non è mai stata una dei privilegiati di cui sopra e tutti i traguardi li ha raggiunti col duro lavoro, trovandosi spesso i bastoni tra le ruote e qualche volta anche dei veri e propri sabotaggi. In lei vedo me stessa, ritrovo quell’ambizione forte e pervasiva che difficilmente riscontro in persone con un passato meno complicato. La necessità di andare avanti, di non mollare, non è un fatto caratteriale ma una condizione indotta dalla vita. Tutti gli italiani nel dopoguerra hanno vissuto una grande esperienza di rinascita, di lotta senza quartiere, per costruire dalle ceneri una nazione intera e rendere orgogliosi i propri discendenti. Quei vecchi italiani non ci sono più e oggi i loro figli stanno morendo, mentre le generazioni successive appaiono molto frastornate e spaventate. Non posso esimermi da questa analisi, la sento fortemente e me ne dispiaccio. Ripeto, sono tra i fortunati fatalisti che vivono il momento con grande serenità e senza angosce, per questo mi posso permettere uno sguardo più lucido sulla realtà. Da combattente quale sono, vorrei vedere il Paese risorgere ancora e il suo popolo scegliere una vita più semplice e autentica per il futuro. Nelle mie giornate da reclusa, mi perdo in tali riflessioni, mentre nel privato la lotta non cessa mai, perché la vita stessa è puro combattimento. Una diagnosi tardiva di tiroidite mi ha provocato notevoli danni alla salute, tanto che ho sviluppato una forte intolleranza al lattosio e al glutine, una malattia della pelle, gastrite e reflusso, debolezza, sbalzi d’umore e molte altre difficoltà. Sono obbligata ad usare tutte le mie capacità culinarie per preparare i lievitati e qualunque altro cibo con farine senza glutine e l’impresa non è da niente. Però volere e potere, non mi scoraggio e a Pasqua ho ottenuto un’eccellente pinza dopo otto ore di lievitazione e molta manualità. Forse anche per questo sorrido al pane bruciato, alle donne senza estetista, alle angosce del consumista medio così distante da ciò che sono io. Per me la resa non è mai una soluzione e una malattia non è solo una disgrazia, può essere anche l’occasione per imparare cose nuove e migliorare se stessi. Mentre scrivo sto morendo di fame a causa della dieta che seguo e mi dolgono le braccia per l’attività fisica, però sono sforzi che aiuteranno il mio fisico complicato a trovare un nuovo equilibrio. Alla fine di questa fase di arresti domiciliari starò meglio, sarà finito anche un nuovo libro e forse i miei lettori lo gradiranno.
Sarei oltremodo felice se la gente che vedo dalla finestra trovasse un po’ di serenità proprio nei momenti di difficoltà, quando la paura e le fragilità umane potrebbero unire le famiglie, le coppie, gli amici, e si preparasse un terreno nuovo per coltivare un’esistenza diversa, magari riguardando a quel passato di uomini e donne, combattenti e fatalisti al tempo stesso, che hanno costruito la società.