La città di Palermo sorge in un’ampia baia delimitata dal monte Pellegrino e dal Capo Zafferano, dove sfocia il fiume Oreto. Vista dal mare la città merita il suo nome latino Panoramus, “tutto porto”. Venti chilometri di costa, una vasta insenatura che si addentra nella terra di Sicilia, protetta da due pilastri di roccia che chiudono l’arco di mare: ecco il golfo di Palermo. Sembra il palcoscenico di un anfiteatro antico, con le balze che salgono a raggiera su per le gradinate di colli. Palermo è antica e moderna, due aspetti che si sommano. Vi sono i monumenti arabo-normanni e la costruzione di quartieri nuovi, prospettive di grandi strade e vicoli pieni di ombre fra palazzi barocchi, cupole moresche, grandi giardini pieni di piante esotiche e pennoni delle navi alla fonda: una trama di storie e atmosfere, una pagina affascinante del Mediterraneo. Alcuni Norvegesi, discendenti del popolo vichingo, dicono che la città della conca d’oro è la più “europea” e la più civile delle grandi metropoli dell’Africa e del Medio Oriente e, allo stesso tempo, la più esotica e misteriosa delle città del Vecchio Continente. Palermo, capoluogo della più estesa isola italiana, è una città dal fascino acceso, quasi accecante nelle giornate di sole intenso, e dal profumo di gelsomino nelle notti della lunga estate. Ancora forte è il traffico via mare, in merci e passeggeri; la sua posizione geografica è la naturale stazione di arrivo nel cuore del Mediterraneo verso i paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Tuttavia, la realtà economica e sociale, per quanto in sviluppo, è ancora al di sotto della media nazionale, di impianti, traffici e delle attività produttive. Il grande mercato agrumario, per cui la Sicilia era nota a livello internazionale, è stato brutalmente ridimensionato, e Palermo deve lottare non solo con la Spagna – concorrente tradizionale – ma anche con i nuovi paesi produttori del Nord Africa. Le difficoltà odierne legate alla sottoccupazione, alla criminalità organizzata, alla corruzione, non intaccano la regalità della città, come d’altronde ne è testimonianza la sua storia. Una storia che viene dal profondo dei tempi. La Palermo millenaria che si svela agli occhi del visitatore è posta davanti ad un mare azzurro intenso e cela una storia agitata fin dalle origini. Fu colonia fenicia nell’VIII secolo a.C., cartaginese nel 480, romana nel 254, vandala nel V secolo d.C. con Genserico, prima di appartenere ad un altro re barbaro, Odoacre e all’ostrogoto Teodorico. Nel 535 una nuova fase con l’arrivo di Belisario, generale degli imperatori d’Oriente Giustiniano e Teodora, con il quale Palermo diventò per i seguenti tre secoli bizantina. Era destino che anche questo dominio dovesse finire e già nell’831 un nuovo padrone era alle porte e, dopo un estenuante assedio, Palermo divenne città saracena. Con loro la città ebbe un nuovo sviluppo e si ornò di splendidi edifici e moschee, dove le maioliche azzurre e gli smalti riflettevano il sole caldo e luminoso del Mediterraneo. Nell’835 si rifugiò a Palermo Abu el-Aglab, sfuggito ad una battaglia navale con i Bizantini, che aveva fatto uso del famigerato “fuoco greco”, ovvero dei proiettili composti da una miscela di pece e resina altamente infiammabile e lanciati con balestre e catapulte.
La presenza di questo emiro arabo particolarmente sanguinario portò sciagure a non finire per le terre vicine e le isole. Già nell’846 gli Arabi di Palermo avevano spaziato con lo sguardo sul mare e avevano anche desiderato colpire un bersaglio molto ambito, Roma, per mettere in ginocchio non solo la città ma anche il prestigio di tutta la penisola. Una flotta di 73 bastimenti, con a bordo 30 mila soldati, 500 cavalli e armi, salpò da Palermo contro Roma, dove regnava il debole papa Sergio II. Vennero depredate le chiese fuori le mura e la stessa basilica di San Pietro, ma alla fine gli Arabi furono ricacciati a Palermo via mare. Ormai era chiaro che il Tirreno era loro proprietà e anche Roma non avrebbe avuto pace per lungo tempo. Intanto, a Palermo, si costruiva. Dove oggi si trova il magnifico Palazzo dei Normanni, pare ci fosse già ai tempi dei Cartaginesi e dei loro successori romani e barbari un edificio di rappresentanza, collocato nella medesima posizione poiché ritenuta la migliore dal punto di vista logistico, nella parte più elevata della città, entro un recinto ideale che nell’XI secolo si chiamava Galka o Galga. Questo quartiere recintato si trovava tra il Papireto, luogo stagnante di acque putride, e il fiume detto “di Maltempo” ed era segnato da tre strade: la via coperta, la via marmorea e la via maggiore. In collegamento con questo sistema viario, sorgeva la torre Pisana, tuttora dominante del Palazzo dei Normanni. La Torre Greca e la Torre Rossa costituivano le altre due punte della costruzione difensiva araba. Nel IX secolo l’aspetto dell’area recintata era quello di una cittadella fortificata ben protetta, il cui nome – Galga – derivò da una volgarizzazione dell’arabo El Halka; dalla cittadella una via coperta portava alla moschea principale. Più tardi, la stessa via servirà per collegare la Torre Pisana con il vescovado. Si calcola che la Palermo araba avesse, nel tempo del suo massimo splendore, dai 300 mila ai 350 mila abitanti, più di duecento moschee e ottime scuole. Tuttavia, discordie interne minarono il potere degli emiri saraceni, che già nel X secolo non abitavano più nella Galga, per timore di sommosse popolari. Alla base della disgregazione vi era lo spezzettamento territoriale, provocato dagli insediamenti dei piccoli potentati aristocratici locali. Approfittando della situazione, nel 1071 i Normanni condotti da Roberto il Guiscardo e dal fratello Ruggero I, assediarono e conquistarono Palermo.
Cominciò così la fase normanna della città e del suo cuore: il palazzo che fu degli Arabi. I Normanni rinforzarono la cittadella, si atteggiarono a difensori della popolazione, contando più sulla sicurezza militare che sulla fiducia nella gente conquistata, bilanciando le necessità della popolazione di religione musulmana con quella cristiana e facendo della Sicilia, sotto il governo di Ruggero II, una potenza mediterranea di prim’ordine. Dopo che il cugino Guglielmo, duca di Puglia, era passato a miglior vita senza lasciare eredi, Ruggero II si era impadronito del potere facendo valere i diritti di successione con le armi e mettendo l’ostile papa Onorio II davanti al fatto compiuto. Questo fu il primo passo verso la realizzazione di un ambizioso progetto: unificare tutti i domini dei Normanni nel Mezzogiorno.
Alla morte di Onorio, l’appoggio dell’antipapa Anacleto II permise a Ruggero di diventare re di Sicilia, Puglia, Calabria e Capua. La sua incoronazione, avvenuta a Palermo il giorno di Natale del 1151, fu per la città l’inizio della sua grandezza. Suo figlio Guglielmo, incompetente e meschino, venne associato al trono dal padre nel 1151 e se Ruggero era brillante, generoso, amante delle scienze e delle arti, il figlio si dimostrò avaro, chiuso, scialbo e anche vile. Tuttavia, il padre lo mise in riga e ben presto il rampollo dovette affrontare il pericolo dei Bizantini e dei Greci che avevano mire espansionistiche in Sicilia. Guglielmo cambiò radicalmente la sua personalità e fece fronte alla situazione sia politicamente che in campo di battaglia, a Brindisi, contro i Greci. A Palermo completò la Cappella Palatina, però fu più impegnato a badare ai nemici che a promuovere iniziative artistiche. Nel 1161 una rivolta di baroni portò alla momentanea destituzione di Guglielmo, tanto che alcuni sediziosi lo fecero prigioniero per porre sul trono il figlio Ruggero che era ancora bambino. La situazione durò solo tre giorni, nel corso dei quali fu depredata la reggia e il piccolo Ruggero proclamato re, ma il popolo insorse contro i nobili e rivolle Guglielmo, che graziò i congiurati. Accadde però qualcosa di triste in quel breve lasso di tempo, un fatto che procurò a Guglielmo l’appellativo di Malo, ossia malvagio; il piccolo Ruggero morì, chi dice per una freccia scoccata mentre si affacciava a una finestra, chi a causa di un calcio del padre. Il dubbio, e il soprannome, sono rimasti. Viene da pensare che chi nasce vile, anche se si distingue in battaglia, non può che rimanere tale. Guglielmo regnò fino al 1166 e gli successe il figlio Guglielmo II, salvatosi con il resto della famiglia durante la rivolta perché nascosto nella Cappella Palatina dal futuro vescovo di Palermo Gualtiero. Guglielmo II detto il Buono realizzò il Duomo di Monreale, costruito, secondo la leggenda, grazie ad un tesoro rinvenuto in una grotta che gli era apparsa in sonno. Si dice che forse si trattava di un tesoro sepolto nella cittadella da qualche emiro al tempo della dominazione araba. Morì a soli trentasei anni e lasciò difficoltà per la successione. Tancredi, suo figlio naturale, venne proclamato re, ma dopo appena quattro giorni morì. Si chiuse così la dinastia normanna, perché Guglielmo III, figlio di Tancredi, regnò meno di un anno e venne soppiantato da Enrico VI di Svevia, sposato con Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II. Pure lui morì prematuramente, pare avvelenato; la vedova si trovò ad essere la splendida tutrice del leggendario erede, Federico II.
La reggia palermitana e la città intera ritrovarono la gioia e lo splendore con questo sovrano che amava tutte le arti e viaggiava con un seguito di musici e danzatori, oltre che con un intero zoo in cui c’erano anche le giraffe, riuscendo a stupire non solo i Palermitani ma anche i suoi. Per merito suo l’intero Meridione si arricchì di castelli e palazzi e la Sicilia divenne faro di civiltà. La morte di Federico (1250) segnò l’inizio della fine, una decadenza inarrestabile. Con gli Angioini, Palermo iniziò una lunga fase di declino anche peggiore di quella sofferta nel periodo bizantino, non fosse altro che per il trasferimento della capitale del regno a Napoli. Il malgoverno che ne seguì sfociò nel massacro del Vespro (venerdì di Pasqua del 1282). Un nuovo periodo di benessere ci fu solo con l’arrivo degli Aragonesi e, pur patendo le guerre civili del XIV secolo, Palermo si arricchì di magnifici monumenti ad opera dei Chiaromonte, assurti a signoria. L’estinzione di questo nobile casato fece cadere la città in mano spagnola, un dominio che fu incurante delle infelici condizioni delle provincie ma interessato a perder tempo stimolando l’antagonismo con Messina; creando pure tutta una serie di privilegi volti a favorire i nobili che attirarono nella città il baronaggio e una nobiltà oziosa che viveva a spese della corte, dissanguando le province sulle quali si riversava enormemente la spesa pubblica.
Il malcontento serpeggiava ovunque, e sebbene il popolo fosse raggruppato in settanta e più corporazioni, non sempre gli Spagnoli riuscirono a frenare i malumori. Nel 1647 Giuseppe d’Alessi guidò una sommossa che riuscì a cacciare gli Spagnoli. Eletto capitano generale, fece abolire i privilegi e le gabelle, ma durò poco, i suoi avversari lo fecero uccidere. Poco dopo la borghesia si ribellò al viceré e Giuseppe Pesce che la capeggiò fu decapitato in piazza. Nel 1713 divenne re di Sicilia il duca Vittorio Amedeo di Savoia che dopo poco lasciò come viceré il conte Maffei, piuttosto debole; nel frattempo si brigava per far tornare gli Spagnoli sull’isola. I Borbone con Carlo III, incoronato a Palermo re di Sicilia e di Napoli, fecero crescere la città e svilupparono la sua edilizia, l’industria e in particolare il commercio. Il figlio Ferdinando, suo successore, non fu invece molto gradito alla popolazione, tuttavia finì per rifugiarsi a Palermo nel 1798 a seguito degli eventi occorsi dopo la Rivoluzione francese.
Nel 1816 il monarca cancellò il parlamento palermitano e tutto il Regno di Sicilia, creando così un organismo nuovo: il Regno delle Due Sicilie. Nel 1848 tutta la regione fu coinvolta nei moti rivoluzionari che videro il 12 gennaio un’insurrezione popolare guidata da Giuseppe La Masa. Il regno rifondato dagli insorti durò appena sedici mesi, dopodiché i Borboni ripresero il potere in seguito ad un massiccio bombardamento della città, potere che avrebbero mantenuto fino allo sbarco dei Mille e all’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. La città oggi come allora conserva tutto il suo fascino mediterraneo, il suo spirito ribelle e orgoglioso; la bellezza di via Maqueda e di corso Vittorio Emanuele che la dividono e tracciano il segno della croce su di essa, i monumenti che colpiscono lo sguardo ad ogni angolo e raccontano di un lungo passato contrastato e spettacolare.
L’anima di Palermo è costituita da tanti pezzi e tanti racconti di popolazioni che si sono succedute, combattute e unite. La Sicilia non ha mai amato nessun padrone e il suo sogno di libertà, forse anche di anarchia, è stato sempre deluso. Tuttavia, ogni padrone ha abbellito a modo proprio questa meravigliosa città: Saraceni, Normanni e Spagnoli hanno impresso qui il loro marchio e anche il concetto di bellezza più congeniale che col sole del Mezzogiorno mutava sempre. A Palermo il popolo venuto dal Nord ha abbandonato il gusto delle penombre ed ha optato per la luce dei marmi e dei mosaici in scarlatto e oro, trasformando il Gotico in qualcosa di unico che solo qui si può ammirare. Passeggiando a Palermo si possono vedere una moschea tinteggiata di rosso, aranci che crescono in mezzo alle vie e hanno quel sapore del Sud che tocca l’anima, edifici barocchi carichi di fastosità, la Cattedrale che ricorda un castello medievale e Palazzo dei Normanni che è un’ode alla grandiosità. Nella città la luce del giorno si fonde in mille riflessi che illuminano gli edifici su tutti i lati, esaltano i colori dei mosaici, delle sculture, dei fregi e degli stemmi di ogni via. Come disse Pennac, Palermo appare come una città al contempo splendida e decadente, in cui l’aspetto un po’ in rovina affascina moltissimo. Aggiungo che anche per me, come per chiunque provenga dalle città del Nord, ciò che mi ha colpito maggiormente di Palermo, oltre la fastosità dei monumenti, è proprio la luce. Una luminosità che fluttua intorno agli edifici, alle piazze, alle vie e che si rispecchia nel mare azzurro, abbracciando la conca e immergendola in delicati riflessi dorati anche in pieno inverno. La sera, specialmente se vista dal mare, Palermo smorza i suoi colori, come la corolla di un fiore che si chiude davanti alla prima oscurità. E allora viene proprio da pensare che il nome più appropriato fosse quello che, ancora prima dell’arrivo dei Romani, gli antichi Fenici avevano dato a questo splendido angolo di mondo: lo avevano chiamato Ziz, “il fiore”.