Le radici in Carnia
“Si disse che Buddha possedeva una cerbottana che non
sbagliava mai il colpo e ogni tanto la usava per soffiar via
gli esseri umani, che sparava come frecce da una parte
all’altra del pianeta, affinché vivessero e imparassero la
bellezza del mondo. E che una simile peregrinazione
durava l’eternità di un istante.”
Zoé Valdés
La terra d’origine di mia madre, con le sue vallate verdi e le aspre montagne, i corsi d’acqua impetuosi, i borghi arroccati su crinali e pendii: ecco la Carnia. Tutte le volte che la percorro mi lascia una sensazione profonda nell’anima, provo una forte identificazione con la natura e l’opera dell’uomo, come se i miei geni riconoscessero parte delle loro origini e volessero rimanervi legati per sempre.
Nell’infanzia ho tanto sentito parlare i prozii degli avi venuti da Tolmezzo, con i loro moderni telai inventati a Villa Santina e i due pini d’alta montagna piantati davanti alla casa che si sono costruiti sulla roccia cruda di Stridone. Da lì si vedono le Alpi lontane nelle giornate di bel tempo, come se i vecchi Punis (o più probabilmente Ponis) volessero mantenere uno sguardo sulla loro provenienza, nel tentativo di non dimenticare le radici. Eppure, molte cose sono andate perdute; il dialetto carnico con il tempo è stato sostituito da quello veneto e il fogolar furlan dal fogoler istriano, però nelle viscere e nell’anima gli uomini e le donne di montagna hanno perdurato. I capelli castani, la pelle bianchissima, i muscoli forti, le ossa di pietra, gli occhi verdi come il fiume But, sono elementi costanti nella stirpe di mia madre. Anche se ho il sangue pazzo e mescolato con quello della biondissima nordica nonna paterna, sento la forza delle Alpi e il verde intenso dei pini nelle profondità di me stessa.
Nei primi giorni di questo anomalo e poco estivo giugno, sono ritornata in quella magica terra che racconta leggende di fate e gnomi, mostra i passaggi della storia tra i duri sentieri e affascina con le vette che sfidano il cielo. I tornanti di montagna si fanno più difficili man mano che si sale verso le cime e si cerca di abbracciare le gigantesche Alpi con lo sguardo.
Poi, guardando verso il basso, tra gli scorci di panorama concessi dai boschi di pini che tutto ricoprono, spuntano borghi di poche case con i campanili svettanti e una semplicità di architettura e di vita che lascia incantati. Nella valle sottostante, Arta Terme si prepara ad accogliere i turisti che vi stazioneranno per le sue famose acque solforose. Le fonti termali si trovano menzionate già nel XVI secolo e furono usate costantemente dalle popolazioni locali.
Il primo stabilimento, inaugurato nel 1870, portò ad Arta gente da tutta la Mitteleuropa e oltre, e tra di loro vi era anche Giosuè Carducci. Il grande poeta vi soggiornò per le cure termali, rimanendo colpito dalla bellezza e dalle leggende del luogo. “O noci de la Carnia, addio! / Erra tra i vostri rami il pensier mio…”.
La leggenda delle bionde fate germaniche, trasportate da nubi dorate al sole nascente sulle cime del monte Tenchia, sopra Cercivento, per cantare e giocare nelle gelide acque del fiume But, lo hanno colpito al punto da dedicare a loro un lungo componimento poetico. Il bel mondo e la nobiltà friulana trascorrevano la villeggiatura nella piccola Arta, frequentata anche da artisti e intellettuali quali Caterina Percoto, scrittrice verista e appassionata poetessa. Me la sono immaginata, mentre passeggiava tra le case carniche o negli attimi di raccoglimento nella chiesa parrocchiale, davanti alle sculture lignee; la sua maestosità di contessa mitigata dalla semplicità dello spirito friulano che non scende mai a compromessi.
Ed è proprio nella chiesa di Arta che ho sentito il richiamo del sangue, di quelle radici profonde che affondano nella dura roccia e sembrano volermi riportare lì, costantemente, tutte le volte che ci metto piede. Sono segni, sensazioni, memorie antiche nascoste nei meandri della mia psiche, risalenti a secoli fa, a vite passate di cui non so niente. Appesa alle pareti della chiesa, mi è apparsa una via crucis molto simile a quella della parrocchia di Stridone. Piccoli quadri dalla cornice di legno verniciato di marrone, con una croce sul lato superiore; un lavoro artigianale semplice ed elegante, a decoro di suggestive pitture policrome.
Ho immaginato i miei avi Ponis, diventati Punis nei registri parrocchiali istriani, portare quelle immagini nella loro terra di adozione e donarle alla nuova parrocchia. Perché in Carnia i miei bisnonni ci tornavano, in visita a parenti e amici, ma soprattutto a quelle montagne, ai boschi verdissimi, alle fredde acque che dalle cime sgorgano a valle, a luoghi dove la mente resta imbrigliata e il sangue non può dimenticare. L’eternità di un istante, la peregrinazione dell’anima che ritorna a se stessa. Quell’emozione profonda che profuma di malinconia, come la pioggia che scende tra gli aghi dei pini e colora l’erba di smeraldo, fa fiorire amare erbe di montagna e riporta la mente al mondo ancestrale, primitivo, di cui quasi non conservo memoria.
La Carnia è tutto ciò e oltre, nella sua crudezza e rigidità, nella sua bellezza elementare e pura, essa dona serenità e quiete ai fortunati che decidono di percorrerla.