Alzheimer e solitudine
È nel silenzio di questi sguardi che egli si sente posseduto, perduto nel suo corpo, alienato, ristretto nelle sue strutture temporali, impedito di ogni coscienza intenzionale. Egli non ha più in sé alcun intervallo: non c’è distanza fra lui e lo sguardo d’altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare ad essere una composizione a più piani di sé, posseduto dall’altro “in tutti i piani possibili del suo volto e in tutte le possibili immagini che di volta in volta possono derivare dai vari atteggiamenti che si possono cogliere”.
Franco Basaglia (da Corpo, sguardo e silenzio, 1965)
Sosteneva Franco Basaglia che aprire i manicomi non era semplicemente aprire una porta, ma la nostra testa di fronte al malato mentale, per secoli recluso e confinato in luoghi dove non potesse nuocere agli altri. Il disagio mentale è sempre stato negato dalla coscienza collettiva, represso nell’inconscio, rifuggito quale maledizione della condizione umana. L’uomo occidentale non ha mai fatto i conti con la pazzia, non si è realmente confrontato con essa e non è pronto ad accettare le sfide della modernità che in alcuni casi ad essa conduce. Oggi il reietto, il celato è il malato di Alzheimer. Gli affetti da demenze senili nel mondo sono almeno 47 milioni – circa gli abitanti di una grande nazione come la Spagna – e in Italia si supera il milione e le duecento mila persone. Si tratta di morti viventi, di anziani che concluderanno una lunga fase di sofferenza con la morte. Se per il Covid, che tanto spaventa le menti semplici, ci sarà il vaccino presumibilmente a primavera, per l’Alzheimer, come per tante altre malattie, non si prospetta alcuna cura e la morte rappresenta una certezza. In questi giorni sto rivivendo l’incubo che ho vissuto con mio padre, deceduto a causa della demenza vascolare. Anche il mio compagno di vita deve seguire l’ultimo viaggio del padre, morto di Alzheimer dopo tre anni di supplizio, ma al tempo delle limitazioni e dei funerali con al massimo quindici persone. Questo è per me un argomento molto doloroso, privato, che però mi sforzo di affrontare con i miei lettori – e solo con loro – perché sono consapevole di quanto siano esperienze comuni a tante persone. Sì, perché quando hai in casa un malato di questo genere, a cui la malattia strappa la mente e devasta il corpo, sei veramente solo.
Al tempo della spaventosa malattia di mio padre, intorno a me si era formato una sorta di terreno bruciato, le persone avevano smesso di chiamarmi, di scrivermi, si voltavano dall’altra parte per paura che chiedessi loro un po’ di conforto o una pacca sulla spalla. Fu in quel momento, in quella lunga fase di sofferenza che capii l’importanza della solitudine, del dialogo con me stessa, della vacuità delle amicizie (soprattutto quelle femminili, tanto da dare ragione al vecchio Freud quando definiva le donne infinitamente più malvagie degli uomini) e della bellezza di questo sito su cui scrivo, dove ho potuto sfogare il dolore tramite la parola scritta, la poesia, la creatività. Voglio pensare che da qualche parte, tra i miei lettori che mi leggono anche dall’Australia, qualche lacrima sia stata versata per la mia insopportabile sofferenza e per l’impotenza di una figlia che sente sussurrare il padre “aiutami ad andarmene”.
Inutile spiegare all’imbecille che continua a ripetere come un mantra “andrà tutto bene” cosa significhi sollevare il proprio padre incosciente che pesa trenta chili; l’imbecille contemporaneo non ha l’intelligenza e nemmeno l’umanità per comprendere un tale martirio. Non sa cosa voglia dire lottare contro le forze della natura, pregare affinché il dolore cessi e sopraggiunga la fine, poiché l’imbecille, finché non capita a lui, trova indifferente il dolore degli altri e quindi la frase vuota “andrà tutto bene” gli calza a pennello. Siamo circondati da masse amorfe di tali individui, soggetti superficiali quanto l’olio che galleggia sull’acqua, incapaci di pensare con la propria testa, ignoranti riguardo la storia dell’uomo e boccaloni su tutto ciò che dicono i media. Sono pronti ad un secondo lockdown, con la catastrofe economica e sociale che ne seguirebbe, senza mai chiedersi quanta morte ci sia oltre il Covid-19. Se poi parliamo delle malattie che colpiscono il cervello, ecco che emerge anche il vecchio istinto dell’uomo primitivo che nasconde alla coscienza una tale eventualità, come lo struzzo che caccia la testa sotto la sabbia. Eppure, nonostante la mia visione critica e negativa di questo periodo storico, per la resa senza lotta di troppe persone, di tanto in tanto la vita mi fa intravvedere una nuova alba. Passeggio con il mio uomo in silenzio, lui stravolto dal presente, io malinconica per il passato. Vediamo uscire da un circolo un gruppetto di “ragazzi” degli anni ’60, un po’ ingobbiti dal tempo, con i capelli meravigliosamente bianchi e le guance rosse per i bicchieri di vino bevuti in compagnia. Camminano e scherzano, ridacchiano, si godono l’aria salubre della sera senza soffocarsi con le mascherine. Mi viene in mente il pezzo che ho scritto sulla pagina l’Angolo delle riflessioni, dove i vecchi soffocano per la mancanza d’aria e quasi si investono per strada, e dico a me stessa che ci sono altri vecchi, gente che ha costruito questa nazione e che non si arrende nemmeno quando la vita tramonta. Paradossalmente è in loro che ho rivisto una nuova alba, la commozione negli occhi del mio compagno, la carezza di mio padre che da lontano mi sussurra: non smettere mai di lottare.
Ho voluto accompagnare questo pezzo per me doloroso con le immagini scattate tanti anni fa, nel momento di una lucente alba d’agosto che rischiarava la terra.