Magnifica Toscana: Siena, città d’arte e di stile
In queste giornate di chiusure, paure e distanze dai luoghi che amiamo, vi voglio condurre a Siena, imponente città guerriera con uno stile inconfondibile. Siena accoglie i visitatori con la famosa e benaugurale frase scolpita sulla Porta Camollia: Cor magis tibi Sena pandit (Siena ti apre un cuore ancor più grande di questa porta). La città, circondata da mura, a pianta irregolare, segue le creste dei colli e ha strade strette e tortuose che sfociano in belle piazze. Con i rossi edifici in cotto, le case allungate, le chiese con svettanti campanili, le anguste viuzze che discendono e salgono, Siena conserva ancora la topografia medievale e vanta alcune delle più belle espressioni dello stile gotico.
All’interno della cinta cittadina si rinvennero suppellettili d’età etrusca, ma la sua fondazione si ebbe ad opera dei Romani e fu colonia militare (Sena Julia) al tempo di Augusto; iscritta alla tribù di Ufentina, ebbe già nel I secolo un corpo di magistrati propri. Durante le invasioni barbariche, pure nella generale decadenza, Siena accrebbe la sua importanza grazie alla posizione facilmente difendibile. Occupata dai Longobardi, divenne sede vescovile nell’VIII secolo e quindi capoluogo di una contea franca. Tra la fine del X e dell’XI secolo l’autorità dei Vescovi si accrebbe, e scalzando il potere dei Conti, preparò l’avvento del Comune e del Consiglio Generale del Popolo. Nel XII secolo l’autorità laica si venne sempre più affermando e si nominarono per la prima volta i consoli. Di tendenze ghibelline, il Comune si scontrò con la guelfa Firenze. Nel 1207 Siena subì una dura sconfitta presso Montalto della Berardenga e ancora nel 1235 dovette accettare da Firenze la pace, perdendo i territori di Poggibonsi e di Montalcino. Il questo periodo fu nuovamente riformata l’autorità politica e amministrativa e al posto del Podestà si ebbe un Consiglio di 24 cittadini: i cambiamenti giovarono a Siena, che nel 1260, con tutte le altre forze ghibelline d’Italia, inflisse a Firenze la memorabile sconfitta di Montaperti. Sennonché nove anni dopo, morto re Manfredi a Benevento, Siena ghibellina fu costretta a cedere; in città, con le milizie francesi, entrarono i Guelfi. Dopo la pacificazione del 1280, fu costituito un governo dei Quindici, sostituito poi da uno dei Nove. Di tendenza guelfa, i Nove strinsero patti di alleanza con Firenze, riconoscendo nel 1326 l’alta autorità di Carlo d’Angiò. Nel 1355 una sollevazione popolare portò alla caduta dei Nove e ad essi furono sostituiti i Riformatori (prima 12 e poi 15), tutti proveniente dalle fila popolane, che conservarono il potere fino al 1386. Nel 1399 la città, esausta dalle continue lotte, si diede a Gian Galeazzo Visconti, ai cui successori rimase fino al 1404. Nella seconda metà del XIV secolo una grande figura aveva primeggiato nella storia di Siena, quella di Santa Caterina (1347-80). Entrata a 16 anni fra le Mantellate di S. Domenico, dopo aver condotto per anni vita ascetica, si sentì chiamata all’apostolato che esercitò attraverso un intenso epistolario. Si dedicò alla missione di riportare il papa dall’esilio di Avignone a Roma, da lei considerato il primo passo per un generale rinnovamento della Chiesa. Negli ultimi anni della sua vita si adoperò per comporre lo scisma d’Occidente, scoppiato nel 1378. Oltre alle 381 Lettere, ha lasciato un Dialogo della Divina Provvidenza. Canonizzata da Pio II nel 1461, è patrona d’Italia e simbolo assoluto della città di Siena. Per tutto il XV secolo si susseguirono vari governi di parte, finché nel 1487 Pandolfo Petrucci, capo dei nobili fuoriusciti, riuscì a impossessarsi del potere e lo mantenne fino al 1525. Quando la famiglia Petrucci fu cacciata, la Repubblica senese vide sempre più aumentare l’ingerenza imperiale, che favoriva i grandi mercanti. Ormai impossibilitata a mantenersi indipendente nel gioco delle grandi potenze nazionali e sovranazionali, Siena si ribellò ancora una volta: nel 1552 la rivolta dei popolani cacciò dalla città gli imperiali. Alleati con Francesi e Fiorentini fuorusciti, i Senesi si videro assediati nel marzo 1554 da un formidabile esercito tedesco e spagnolo. La resistenza fu lunga e accanita, ma nell’aprile del ’55 i pochi superstiti dovettero aprire le porte alle milizie imperiali. La Repubblica continuò ancora quattro anni, ridotta alla sola città di Montalcino. Siena cadde e passò a far parte dello Stato mediceo, successivamente di quello lorenese seguendone le vicende. Nel 1859 fu la prima città della Toscana a deliberare l’annessione al Regno d’Italia.
Eccezionale è stata a Siena la fioritura di artisti, pittori, scultori e architetti, specialmente nel XIII e nel XIV secolo; fra i molti si possono citare Guido da Siena, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Tino di Camaino, Ambrogio e Piero Lorenzetti, Bartolo di Fredi, Iacopo della Quercia e molti altri. Il grandissimo fascino della città medievale deriva in pari misura dagli aspetti scenografici e incomparabili della sua urbanistica che dalle innumerevoli opere d’arte, di cui Siena è forse più ricca di ogni altra città di pari proporzioni. Fra tutte le epoche artistiche sommo risalto ha lo stile gotico, così caratteristico nell’architettura e così prolifico in pittura; si distingue il maestoso Duomo, in stile romanico; il Rinascimento assunse forme eleganti ed aggraziate, belle e notevoli furono le opere del manierismo e del tardo Rinascimento.
Il fiorire dell’arte gotica appare improvviso, ed è prodigioso: in architettura si fissa il tipico stile senese, con finestre archiacute generalmente sbarrate da un arco ribassato. Interessante esempio di fortezza è rappresentato dal Forte S. Barbara. Costruito dal duca Cosimo I nella seconda metà del Cinquecento, dopo la conquista di Siena, è chiamato anche Fortezza Medicea. Di imponente forma quadrata, ha quattro baluardi agli angoli. Oltre ad essere una meta di passeggiate cittadine, ospita nei suoi sotterranei l’Enoteca Italica Permanente, interessante esposizione dei più pregiati vini italiani. Tuttavia, l’architettura senese rifulge soprattutto negli edifici civili, slanciati, largamente aperti da bifore, con interni di eccezionale bellezza. Palazzo Pubblico, gioiello dell’arte gotica e cuore antico di Siena è l’esempio più luminoso.
Basta dire “il Campo” e i Senesi pensano alla loro famosa piazza a forma di conchiglia, sulla quale si erge il Palazzo Pubblico, che sembra voler abbracciare e racchiudere, oltre a se stessa, la storia di questo glorioso Comune. Alla fine del XII secolo il Campo aveva ormai la sua forma definita, dopo secoli di continui cambiamenti, ed era contornato di palazzi splendidi e austeri: una corona di finestre, terrazze, torri, merlature, gioielli di architettura come pietre incastonate in un prezioso diadema. Sorse qui anche Palazzo Pubblico, che ebbe la sua prima ragione d’essere in una decisione del 1288, quando il Comune decise di riunire i suoi diversi uffici pubblici in una sede unica e centralizzata. Con l’acquisto e la demolizione di alcune case circostanti a opera del comitato dei Dodici cittadini, si iniziarono i lavori di costruzione che, tra il 1297 e il 1310, erano già compiuti nella parte centrale: di pietra la zona inferiore, scandita da archi detti “senesi” per la loro particolare conformazione, di mattoni la seconda e la terza, ritmate da eleganti finestre a trifora sormontate da un grande disco di rame col monogramma di Cristo. L’aggiunta di un piano ai due corpi laterali è seicentesca. Ed ecco che la grande costruzione rossa di mattoni illuminati dal sole era una realtà che i Senesi potevano apprezzare in tutta la sua bellezza, con le slanciate finestre gotiche, il piano terreno di solida pietra tagliata, la torre slanciata a sinistra, la campana delle ore e del pericolo per gli allarmi e le convocazioni del popolo. Tuttavia, nella seconda metà del Quattrocento Siena viveva nella necessaria tranquillità, dove ogni mercante e artigiano si occupava dei suoi traffici e del suo guadagno, mentre i palazzi sorgevano e la città rinascimentale si andava formando compiutamente. La coscienza della bellezza di questo palazzo che era la casa di tutti, era viva nei Senesi, se nel 1316 una pubblica petizione chiedeva che non si accendessero fuochi di legno e di paglia nella sala in cui si amministrava la giustizia, per evitare danni alle pitture pulcherrimae, ovvero bellissime. Il fuoco, tuttavia, nel 1326 danneggiò una parte del palazzo. Il primo Consiglio poté riunirsi nella sala apposita nel 1343 e le decorazioni pittoriche di Lippo Vanni, Tuccio di Betto, Bartolo di Fredi e Martino di Bartolomeo iniziarono l’anno dopo e furono portate a termine soltanto nel 1429. A questo palazzo, cuore della vita cittadina, è anche legato il nome di San Bernardino, l’altro grande santo senese con Santa Caterina. Infatti, in alto, al centro del sopralzo della facciata, il disco di rame foggiato a sole raggiante e contenente il monogramma di Cristo con le lettere IHS, è l’emblema di San Bernardino da Siena, presente in molti dipinti senesi del Santo. Con i suoi 102 metri protesi verso il cielo, ecco la Torre del Mangia, costruita nella prima metà del Trecento, ovvero quando i mastri perugini Minuccio e Francesco di Rinaldo la costruirono.
Muta testimone di assemblee popolari, tumulti, tornei, feste, insomma di tutti gli avvenimenti, spesso drammatici, che ebbero per teatro il Campo. In cima ai 332 gradini, nella cella campanaria, il campanone “sunto” (dedicato a Maria Assunta) ha segnato le ore della storia di Siena. Proprio dal campanaro, Bartolomeo Duccio detto “Mangiaguadagni”, la torre prese il nome. Quando l’uomo fu sostituito da un meccanismo, cioè da un automa, continuò a chiamarsi Mangia e funzionò fino al 1780. Oltre ad essere una stupenda decorazione del palazzo, la torre ne è, al tempo stesso, una parte funzionale, perché con la sua altezza era luogo di vigilanza della città e dei dintorni, segnale d’allarme con la sua campana, e non ultimo, simbolo di fierezza. La prima pietra era stata posta nel 1325, ma i lavori erano andati avanti nel tempo, lentamente. Nemmeno la terribile peste del 1348 ne fermò la costruzione. Fu in occasione di questa tragica ondata del tremendo flagello che si decise di edificare ai piedi della torre una cappella, detta Cappella di Piazza, iniziata nel 1352, ma completata con archi rinascimentali nel 1468. Il Palazzo Pubblico svolge oggi una duplice funzione, quella di sempre e quella di museo, di un genere tutto particolare, perché ogni sua pietra e mattone parlano di storia e di grandezza. Tra i bellissimi ambienti racchiusi nelle mura del palazzo, da ricordare gli splendidi affreschi della cappella, eseguiti da Taddeo di Bartolo e chiusa da un’elegante cancellata in ferro battuto del 1437, opera di Giacomo di Giovanni e di suo figlio Giovanni, forse su disegno di Jacopo Della Quercia. Dalla mano di Ambrogio Lorenzetti sono uscite alcune delle più belle pitture del Palazzo Pubblico, piene di contenuto artistico, ma soprattutto di allegorie, di messaggi, che nel Trecento venivano narrati anche a vantaggio degli analfabeti. La piazza è famosa in tutto il mondo anche per una corsa senza eguali. Il 2 luglio e il 16 agosto di ogni anno si svolge, infatti, in Piazza del Campo il celebre e tradizionale palio. Lo spirito medievale, le tradizioni democratiche dell’età comunale, l’intensa vita di contrada riecheggiano e permeano la manifestazione che, benché creata all’incirca nel XIII secolo, si è andata precisando nella simbologia e nei nomi rionali soltanto nel XV secolo.
Le passioni delle Contrade, fissate in numero di 17 e circoscritte territorialmente da un bando della principessa Beatrice di Baviera, governatrice nel 1729 in nome dei Medici, si sprigionano: le antiche inimicizie, le tradizionali alleanze vengono affidate ai fantini, a volte anche donne (si ebbe una amazzone già nel 1581) che, cavalcando “a pelo” si buttano sul durissimo percorso dei tre giri di piazza.
La suggestiva scenografia, la totale e vivacissima partecipazione del popolo senese fanno del palio la più tipica rievocazione medievale d’Italia.
Siena, bella e fiera, appare segnata da due colori: il bianco e il nero, senza spazio per i grigi, senza compromessi. La divisione in contrade rende chiaro il concetto di colori opposti e netti, di divisione chiara. Dietro il bianco e il nero si nascondono non solo il positivo e il negativo, ma anche la superbia e l’ambizione.
La sua secolare storia la vede posta su tre colline, con l’atmosfera medievale conservata e vissuta, i palazzi levigati dal tempo, le strade severe come corridoi di un convento, i cortili bui e suggestivi, la stupenda e immensa conchiglia rossa del Campo: faziosa, gioviale, caparbia, attaccabrighe. Siena, città santa e guerriera, ha attraversato i secoli rimanendo intatta nel suo fascino. Le brutture della storia, culminate in epoca moderna nel crack del Monte dei Paschi, hanno tolto a Siena molti dei suoi leggendari negozi d’antiquariato, tanta della sua imprenditoria fatta di artigiani, di enoteche, di negozi storici; troppe sono le bancarelle di stracci, troppi i punti vendita legati a catene straniere che inevitabilmente fanno diventare nostalgici e un po’ tristi.
Eppure, la città vive, si erge battagliera anche negli anni della crisi economica senza fine, della perdita d’identità, della pandemia che la vede chiusa e sbarrata. Vagavo tra le sue vie, l’estate scorsa, riflettevo sul suo cambiamento e sul futuro che non riesco a vedere per il nostro Paese. Così, camminando vicino all’imponente Basilica di San Francesco, ho notato una deliziosa enoteca con anche prodotti dolciari tipici e delizie senesi, e sono entrata; un elegante signore, con l’inimitabile accento toscano, mi ha accolta tra gli scaffali pieni zeppi di vini nobili, tra i tavolini col panforte classico e persino senza glutine (una manna!) e tante leccornie da restare abbagliata. Abbiamo parlato, mi ha raccontato una Siena inedita, fatta di circoli esclusivi e di prepotenze della politica, ma anche di una nobiltà severa e autentica che la salverà da ogni attacco, da ogni stortura. In Siena ho visto la stasi del nostro Paese, la bellezza sospesa, però anche un substrato di cultura potente e superiore, battagliera, fiera, inimitabile che potrebbe generare un nuovo Rinascimento. I sogni, in Toscana, sono duri a morire.