Ricordi di aprile
Sotto il cielo di aprile la mia pace è incerta.
I verdi chiari ora si muovono sotto il vento a capriccio.
Ancora dormono l’acque ma, sembra, come ad occhi aperti.
Ragazzi corrono sull’erba, e pare che li disperda il vento.
Ma disperso è solo il mio cuore cui rimane un lampo
vivido (oh giovinezza) delle loro
bianche camicie stampate sul verde.
Sandro Penna
Aprile mostra la natura in tutta la sua bellezza, già dai primi giorni. Anticamente erano momenti dedicati a Venere e il nome del mese era associato ad “aperire” (aprire), schiudere i boccioli e la vita, oppure proprio da Aphrilis, l’Aphrodite greca che celebra l’amore nella natura.
Qualunque sia l’origine, non viviamo certamente una fase di aperture e di amore da celebrare. Il clima clemente di queste giornate, il sole fin troppo caldo che rischiara la terra, non sono presagi di vita all’aperto e di camminate nei boschi, anzi. Tutto appare come una tortura e la nostra vita è ridotta ad una mera funzione biologica. La società esige il lavoro, le tasse, le scadenze da rispettare e il piacere del vivere, anche solo di respirare, equiparati ad atti di anarchia o crimini da castigare duramente. Le terapie intensive, i morti, il caos delle vaccinazioni, tutto attribuito a chi, dopo un anno, non ce la fa più e chiede di poter uscire dalla gabbia. L’autocertificazione, il controllo, la denuncia del vicino, i media assatanati, i bambini a casa, i vecchi soli, gli imprenditori alla canna del gas e intanto il tempo scorre, sfugge e alle porte della galera la primavera bussa incessantemente. Una Pasqua da confinati, agli arresti domiciliari e timorosi di andare dai parenti (una volta sola, due adulti, qualche minore e l’autocertificazione nella borsa, mi raccomando!). Ci si chiede per quanto tempo, quanto ancora si potrà sopportare senza esplodere, senza diventare violenti e abbandonare gli ultimi barlumi di civiltà ancora rimasti. Rifugiarsi nel passato non basta, anche se aiuta evocare il meraviglioso mese di aprile nella nostra memoria. Quelle giornate quiete di primavera, la Pasqua da trascorrere con gli amici, le passeggiate nei prati verdissimi in fiore, il risveglio della natura che si sente fino alle viscere. I boschi che ridiventano smeraldo, i sentieri dove germogliano fiori selvatici, le acque che scorrono cristalline tra le radici, la giovinezza lontana che pare ritornare a inebriare la mente.
A volte ci si risveglia e si pensa che sia stato solo un incubo, poiché fuori gli uccelli cantano e il profumo degli alberi in fiore entra dalle finestre; la realtà, purtroppo, è un’altra. Siamo una società fallimentare, fragile e debole, ricattata da un virus e terrorizzata dalla morte, però con l’arroganza fallace dell’essere immortali. Il grembo della natura ci viene offerto, il nettare della vita è a portata di mano ma noi siamo in gabbia e non sappiamo come uscirne. Il secondo mese di aprile dell’era pandemica e quella speranza di ritornare ad essere ancora umani, solo umani, che si allontana sempre più.
Non riesco a scorgere il futuro in questo stupendo aprile, nemmeno con la porta del terrazzo aperta, il canto dei passerotti sulla ringhiera e il mare che si staglia davanti alla collina; i mesi della bella stagione, un incubo annunciato, e le nostre vite schiacciate dal potere che non è mai stato così assoluto. Il ricordo di aprile mi rende malinconica mentre riguardo le foto degli anni addietro e nella mente mi rivedo piccola, neanche adolescente, correre nei prati verdi tinteggiati dai colori dei fiori; sento mia madre chiamarmi: il pranzo di Pasqua è pronto, mi attendono tutti, sono sempre l’ultima ad arrivare. Sono la bambina selvatica, quella che cerca la natura, la libertà, l’aria di montagna e il buio del bosco profondo; esco di casa con un sotterfugio, raggiungo la valle del grande torrente e mi infilo nel canneto, con i ranocchi e gli uccelli che nidificano a primavera. Appare un sorriso sulle mie labbra ma è un attimo e nella gabbia odierna, nella città di cemento, i ricordi di aprile sono un colpo all’anima.
Siamo tutti feriti, scorticati e con le difese a pezzi; la natura bussa alle finestre e alle porte del cuore, possiamo solo farla entrare e sperare che guarisca i dolori di questa non-vita. Penso a mia madre e a tutti gli anziani che hanno poche primavere da vivere, al dolore della loro chiusura dopo esistenze difficili e lavori usuranti, e mi sento impotente.
Eppure, so che nella natura troverò le risposte. La luce che rischiara il buio dell’anima, la via da percorrere, e a costo di isolarmi, di fare l’eremita nei boschi istriani, lontano dalla società impaurita e imbavagliata, ritroverò aprile e il ricordo della bambina selvaggia che la vita non riusciva a incatenare.