Dopo trent’anni
Sono trascorsi tanti anni da quando ho lasciato la Jugoslavia, nazione in profonda crisi economica e sul punto di precipitare in una sanguinosa guerra civile. Sono trascorsi, per l’esattezza, trentuno anni. Ho festeggiato il mio diciassettesimo compleanno a casa di amici; eravamo in tutto quattro, tutte donne, e di quel momento ho soltanto una sbiadita foto polaroid dove sembro felice. Mio padre viveva ancora in Istria e mio fratello era in giro per l’Italia, a lavorare negli alberghi quattordici ore al giorno, per una modesta paga. Ricordo le file per il permesso di soggiorno alla Questura di Trieste, con la paura delle divise che mi impediva la deglutizione e le frasi di morte che si scambiavano i serbi e i croati in fila con me. Ricordo anche gli africani, all’epoca ancora non molti, del tutto spaesati, isolati e soli. Ero tra gli ultimi, ero ultima anch’io. Da allora tanta acqua è passata sotto ai ponti e il tempo ha cambiato la mia mente, le mie prospettive e anche i sogni. Ciò che non ho mai sradicato sono i ricordi; li ho custoditi senza ingigantirli, senza forzarli alla mia visione: sapevo che prima o poi li avrei condivisi con gli altri. Il momento, alla fine, è arrivato e il mio undicesimo libro L’abisso socialista. Memorie di una ex jugoslava ha portato a galla ciò che custodivo e ciò che mi tormentava, quella verità di cui tanti di noi cresciuti nell’Est – e nei Balcani in particolare – fanno ancora fatica a raccontare. Il libro ha suscitato grande interesse da parte di giornalisti, intellettuali, esponenti di famose associazioni e di comuni cittadini che mi hanno dimostrato grande affetto. Così la RAI mi ha omaggiato di due interviste, la Voce del Popolo attraverso la testata Panorama di un bell’articolo (firmato da Ilaria Rocchi) e il Piccolo di Trieste stamani di ben due pagine nella sezione cultura (l’articolo è di Paolo Marcolin).
La commozione è stata grande e anche l’incredulità, fin dal momento in cui ho ricevuto la telefonata di Pietro Spirito, una mattina, e quella dell’avvocato Sardos Albertini della Lega nazionale che si è commosso leggendo il libro. Il dolore di una vita, il senso di oppressione, la memoria di anni in cui non avevo niente e non ero niente, il ricordo degli schiaffi presi a scuola, delle botte, delle umiliazioni, della confusione infantile che mi rendeva violenta con gli altri bambini (e di cui ho ancora rimorso), tutto come in un buco nero che ritorna alla luce portando via tre decenni di silenzi e di incubi. Freud, forse, sarebbe orgoglioso di me. Ed io mi sento di ringraziare, di essere grata, per l’attenzione e il rispetto dei media e delle persone che contano, come delle persone comuni che mi esprimono comprensione e ammirazione. Non sono mai stata felice come adesso e forse non lo sarò mai più in questo modo, perciò desidero condividere questo magnifico stato d’animo con tutti voi, cari lettori, che mi leggete anche su questo blog.