Prima dell’alba – Recital
Il recital “Prima dell’Alba” è andato in scena il 7 dicembre 2013, presso il Teatro Actis di Trieste. Gli interpreti Andrea Neami e Luisa Mari hanno recitato sulle note dei musicisti Gabriella Vatti e Andrea Monterosso che hanno eseguito musiche dal vivo.
Il Buio diventa Tenebra oltre il Sole, lo Spirito diventa il Nulla nello spazio, la Vita un soffio inconsistente nel Tempo. Una pioggia di meteoriti può essere un fatto fenomenale per gli astronomi, una fonte d’ispirazione per i poeti, uno spettacolo per due amanti. Oppure, i medesimi meteoriti, possono essere un flagello se piovono addosso a qualcuno. Tutto dipende dal punto di vista di chi guarda. Sono sdraiato sulla terra nera, calda e umida come il grembo di una madre sanguinaria. L’ambiente è sconosciuto, cinto da mura povere, fatte di mattoni di fango. Sento l’odore del vomito, dell’urina, della morte e dell’orrore, stagnanti, impressi come da un’oscura volontà divina. Ho le mani legate, sono immobilizzato e non c’è verso di sciogliere i lacci: sono come sotto un incantesimo. Io sono l’uomo in grado di vedere oltre le apparenze, oltre le normali barriere percettive, in grado di sentire il pericolo a miglia di distanza, col mio spirito d’osservazione e la mia ingombrante riservatezza. Le leggende mi dipingono come un essere superiore, una specie di Super-Uomo al servizio del male, quel male che si annida nel potere; oppure sono l’eroe dei film, scaltro e senza scrupoli, che alla fine salva il mondo e se stesso. Invece è una semplice e lineare verità a raccontare ciò che sono: abile ad osservare la gente e le situazioni, fin da piccolo, bravo ad osservare, tutto qui. Con gli anni, con le alterne fortune del caso, ho imparato un lavoro atipico, mi sono addestrato ad una continua imitazione della realtà, ho acquisito caratteristiche culturali, linguistiche e mille altre capacità che mi hanno portato ovunque. In posti dove in tanti vorrebbero andare, ma soprattutto in luoghi dove nessuno mai vorrebbe trovarsi. Ora non serve un genio dell’osservazione, un grande analista di dati, una brillante mente intuitiva, per capire cosa mi sta per accadere. Manca poco all’alba, sono certo che manca poco, anche in questo buio. Verranno a prendermi e mi uccideranno. Mi spareranno due, tre colpi alla schiena e getteranno il mio corpo in una fossa nel deserto. Gli uomini che parlano il pashto, nella provincia di Kandahar, hanno metodi di tortura dozzinali e inefficaci, un triste lascito dell’invasione russa e del Kgb. Non possono concepire l’idealismo in un occidentale, abituati come sono agli insegnamenti coranici nelle madrase che descrivono i kafir, gli infedeli, come esseri abominevoli. Non sanno che il mio è un lavoro senza clamore e senza elogi, non sanno che nella mia Patria sono uno sconosciuto e non un eroe, spesso disprezzato e considerato un “deviato”. Un uomo che creda nei valori della Bellezza al di sopra della Turpitudine, non si pensa possa fare questo lavoro.
E mi sembra di attraversare il tempo e la Storia, mi sembra di vivere mille vite in una, trovandomi nei posti più disparati, in momenti cruciali, con compiti elevati, per poi essere sacrificato agli Déi dell’Ipocrisia. Nelle ore che precedono l’alba, rivivo ogni luogo della Storia umana. Io, l’uomo senza volto e senza identità, ero a Qadesh quando Ramsete II sconfisse gli ittiti nella prima epica battaglia del genere umano, ero con gli ateniesi quando sconfissero i persiani a Maratona, ho passato il Vallo di Adriano e ingannato i britanni, ho combattuto a Lepanto e alle porte di Vienna, ero in Terrasanta con i cavalieri Templari. Ed ero con loro, con i Templari, quando lo stesso potere che li ha generati ne ha determinato la distruzione, dopo che avevano giurato ubbidienza al potere papale e alla religione cristiana. Sono arso sul rogo accanto a Jacque de Molay mentre urlava la sua innocenza, la proclamava con forza, alla sorda società corrotta e degradata che lo circondava. Ho giurato anch’io fedeltà ad un ideale, ad una missione, alla mia Nazione, nel bene e nel male. Sono quello che sono, con i miei limiti e le mie ataviche malvagità, figlio di un mondo che ha perso ogni innocenza, pudore o decenza, ma ancora convinto della bontà dell’essere umano. Freud e Nietzsche non sarebbero d’accordo con me, parlerebbero di thanatos e della morte di Dio, ucciso dall’uomo, non comprenderebbero la forza che si agita nelle mie membra e mi spinge a non fermarmi, a non tradire ciò in cui credo, a scapito della mia stessa vita. Sono penetrato nelle civiltà altrui, ho spiato e tramato, mentito e ingannato, per difendere la mia civiltà e tutti coloro che la criticano, abusando di diritti giudicati ingenuamente acquisiti. Ho immolato me stesso ad una Causa, pur sapendo che a pochi interesserà. Sento il pianto di mia madre, attraversa il tempo e lo spazio, sembra antico di millenni; il pianto di migliaia di donne, di madri, di mogli e amanti che urlano, che chiedono: “Perché l’hai fatto? Perché non me l’hai mai detto?”.
Guarda il sorriso di un bambino e quello di un anziano. L’inizio e la fine dell’esistenza sono identiche nella loro bontà e ingenuità. Quello che sta in mezzo non deve comprometterle.
E’ l’alba, stanno arrivando. Sono pronto.
La televisione trasmette Sunset Boulevard nelle ore che precedono l’alba, in questa notte di stelle luminose e di luna nera. E io non dormo, non dormo più. Mi sento come Gloria Swanson nel “viale del tramonto” della mia vita. Da quando ho ricordo di averlo visto quel film, l’ho sempre pensato in italiano, mi sembrava naturale farlo. Ma in lingua originale rende maggiormente l’idea della decadenza, di quella lontana Hollywood che crea e demolisce le sue stelle. Mio figlio, il mio unico figlio, me l’ha fatto notare. Lui che ama così tanto l’inglese da parlarlo sempre, lui che parla tante altre lingue, apprese nella sua breve vita in giro per il mondo, in luoghi di cui non so niente, occupandosi di cose di cui non parla a nessuno, nemmeno a me. Ed eccomi qui, la sua eccentrica madre, vestita in abiti sgargianti, con i miei orpelli vistosi, ricordo di un passato lontano, che mi ostino ad indossare anche adesso che non recito più, che non calco il palcoscenico, che non faccio più l’attrice. L’ho ossessionato da piccolo con la recitazione, me lo portavo a teatro, a lavoro. Era così minuscolo e fragile che le ragazze della compagnia lo prendevano in braccio con delicatezza e poi lo sfioravano appena. L’ho tirato su tra una pièce di Beckett e una di Ibsen, in mezzo al cerone di scena, al profumo di cipria e di polvere, tra le tavole di un palcoscenico. Poi, quasi all’improvviso è cresciuto, nemmeno me ne sono accorta. E’ diventato forte, alto, spalle larghe, bello come Adone, coraggioso come Achille. C’era però della malinconia nei suoi occhi, quegli occhi così indagatori che si celavano nell’ombra, occhi che osservavano in silenzio. Ambizioso come pochi, studente perfetto, appariva diverso da me in tutto; così distante dalla mia anarchica avversione per le istituzioni, talmente idealista che mi ha sempre spaventato, terrorizzato, perché sapevo, perché ho sempre saputo, che l’idealismo e l’ambizione lo avrebbero condotto lontano da me. Può un’artista generare un uomo che si sacrifica per le istituzioni? Per un ideale di stato e di nazione? Per difendere lo status quo di una civiltà con inganni e menzogne? Può una donna come me amare un figlio come lui? Eppure lo amo, lo amo e l’ho sempre amato, quel figlio così distante da me, come una lontana galassia. Se è vero che siamo tutti fatti di stelle, se i nostri atomi sono materiale proveniente dall’esplosione degli astri, dalle supernove, allora sono congiunta a mio figlio anche oltre il legame di sangue, ben oltre il cordone ombelicale e oltre quell’ideale di maternità appartenente alla cultura patriarcale che mai ho sentito mio.
Non so dove sia adesso, in queste ore prima dell’alba, mentre l’etere manda frammenti di celluloide, mentre gelo nell’aria della notte che entra dalla finestra di questa opprimente stanza. Ma so, sento, nelle cellule e negli atomi, che sono le sue ultime ore di vita. Spalanco la finestra, del tutto, non sopporto l’odore di cera dei mobili d’antiquariato, non sopporto il letto da diva simile ad un catafalco, non sopporto le troppe foto dell’Era in cui ero avvenente, ambiziosa, convinta che sarei diventata una stella. Forse sono stata io, sì io, ad avergli trasmesso i geni che l’hanno condotto lontano da me. Mi avvolgo in questo velo nero, col mio consueto gesto teatrale, come una pessima Medea in una tragedia contemporanea. Dalla finestra entra l’aria tagliente simile ad una lama affilata, mi colpisce, mi ferisce. Spolvera i ricordi e acutizza il violento dolore al cuore. Il cielo è carico di stelle, un manto di stelle vicine e lontane: un cielo così non lo vedevo da tempo. Ed ora lo percepisco, ecco, sento che mi invoca, sento che ascolta il mio pianto attraverso il tempo e lo spazio, nella sua ultima esalazione di vita. Non sono la stella di celluloide che avrei voluto essere, non sono la regina del palcoscenico e delle feste mondane, sono solo una madre, una madre che piange suo figlio, e guardo le stelle di questo cielo comune a tutte le creature viventi, chiedendomi: chissà se tornerò ad esse, chissà se mi ricongiungerò a lui?