Tramonti triestini
Sopra i tetti della mia città, oltre le gialle gru del porto che si stagliano all’orizzonte, i tramonti d’oro e di fuoco dardeggiano il cielo di agosto. Li osservo dal terrazzo di casa, estasiata e incantata da quel rosso intenso che sembra un orizzonte d’Africa, o dai toni dell’oro, brillanti e accecanti come la luce degli angeli. Trieste vive di contrasti profondi, di cromatismi accesi, di alberi che precipitano sulle scogliere e di un placido mare che, imbizzarrito all’improvviso dal vento, schiaffeggia violentemente i moli.
Alla fine del giorno il tramonto posa i suoi coralli sopra i neri capelli della notte; seduta in riva al mare li colgo nelle immagini, come preziosi da custodire nell’anima. Sulla riva cittadina, dall’altra parte del golfo, vedo i gabbiani solcare il cielo nel tramonto che cambia colore e si posa sul mio volto. Sopra le acque tacite e calme inizierà la traversata di astri e stelle, spinti in lontane galassie come punti luminosi che indicano arcani percorsi. Un manto d’oro si stende sulla soglia della notte, e lassù nel cielo apparirà il carro tirato da un nero destriero, tra scintille e fuoco delle stelle cadenti.
Penso alla vita passata, guardando il sole sfiorare il mare e so che se potessi tornare indietro, commetterei più errori; non cercherei la perfezione in me stessa, non dedicherei le mie lacrime agli altri. Mentre il sole declina nel suo tramonto sopra il mare calmo, gettando sull’acqua sprazzi purpurei e ardenti, i flutti sospinti dalla marea spumano davanti a me, come se mi chiamassero e mi tentassero di seguirli.
Fiabe e leggende di questo angolo di mondo affiorano nella mia mente, i tempi remoti mi appaiono vicini e mi rivedo piccola giocare tra gli scogli, in quei giorni d’infanzia passati a Trieste, col cuore lasciato a casa in attesa del ritorno.
Il fascino della città l’ho subito a poco a poco, non è stato un amore immediato. Ho vissuto male a Trieste, ho sognato di lasciarla molte volte, e mi chiedevo perché mai da bambina l’amassi tanto. Mi dicevo che allora non la conoscevo abbastanza o che ero troppo ingenua per capirla. In verità non conoscevo me stessa e troppi erano i nodi da districare e il peso di un passato difficile da accettare. L’indifferenza, l’apparente crudeltà dei triestini mi hanno turbato fin dall’inizio, quella scandalosa mancanza di umanità e compassione era troppo distante da me. Non capivo come si potesse lasciar morire le persone in solitudine, prendere il sole in spiaggia accanto ad un morto e poi seppellire il tutto con una risata immonda. Anche oggi con mia madre, anziana e malata, vilmente maltrattata da una cagna idrofoba alla posta, mi viene da dire che me ne voglio andare e che s’impicchino i triestini, magari sui pali della luce a Barcola. Eppure, qualcosa di profondo e viscerale mi lega ai tramonti, all’esplosione del sole sul mare, a quelle scie di luce attraversate dai gabbiani che colorano di rubino le facciate delle case.
Un parco tranquillo, alla sera, la luce d’oro che filtra tra i rami. Mi siedo, sento il calore del sole che si spegne all’orizzonte, trasportato da una leggera brezza. Momenti, attimi, per cui vale la pena vivere a Trieste. Il sobborgo dove abito conserva il sapore di un’antica vita paesana, quando la collina era ricoperta da campi e i pescatori tiravano le reti sul mare sottostante. In mezzo agli alberi svetta il campanile, illuminato dal tramonto che scintilla lontano. Poso gli occhi su un portone abbandonato, invaso dalla vegetazione, una specie di varco di pietra e metallo dentro alla collina; forse un passaggio segreto verso un mondo incantato, un antico giardino oramai incolto.
Il mondo non è perfetto e Trieste non ne rappresenta la perfezione; una città incattivita, incarognita nelle sue nevrosi ma di una bellezza di paesaggio e di natura, di arte e di cultura che sconvolge il cuore e sa legare per la vita.
Amerò per sempre Trieste e anche se me ne andrò – un giorno o l’altro accadrà per davvero – il ricordo dei tramonti triestini sarà una memoria preziosa e una spina nostalgica nel mio cuore.