6 Dicembre 2021

San Nicolò a Trieste

By admin

Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre i bambini di Trieste attendono San Nicolò come negli altri luoghi del mondo occidentale e cristiano si attende Babbo Natale. Per meglio dire, questa era un tempo la tradizione, ora in parte pare sia stata messa in discussione dall’ateismo negazionista che vorrebbe impedirci di dire “Buon Natale”. Questa forma di ottuso ateismo, per altro, si riverbera in ogni aspetto della quotidianità, tanto che non è facile trovare nella grande distribuzione il classico San Nicolò di cioccolato da regalare ai bambini, soppiantato dalla renna o dai pupazzi di neve neutri e “politicamente corretti” che tanto sembrano piacere a Bruxelles. Anche per questo vi voglio condurre nella magia di questa tradizione così cara pure a noi istriani, passando per il mito e la leggenda, tenendo sempre presente che stiamo parlando di un santo cristiano. In particolare, desidero trasportavi nel passato di Trieste, quando la fiera di San Nicolò rappresentava un momento di gioia e letizia popolare. Inizio però con un po’ di storia, per poter inquadrare i periodi del culto. San Nicolò è San Nicola, vescovo di Myra che risposa a Bari.

San Nicola nacque probabilmente a Patara, città greca della Licia (nell’attuale Turchia) intorno al 270 dopo Cristo. Lasciò in seguito la sua città natale e si trasferì a Myra (l’attuale Demre) al tempo nell’Impero bizantino, dove fu ordinato sacerdote. Alla morte del vescovo della città, fu acclamato dal popolo e divenne lui il nuovo vescovo. Perseguitato da Diocleziano e imprigionato, fu successivamente liberato da Costantino e, dopo la liberazione, riprese la sua missione apostolica. Non è certa la partecipazione del santo al Concilio di Nicea (325 d.C.), dove avrebbe condannato l’Arianesimo prendendo a schiaffi lo stesso Ario; tuttavia, nota è la sua difesa dell’ortodossia cattolica. Ottenne aiuti per la città di Myra durante i momenti di carestia e anche la riduzione delle imposte dall’imperatore. Secondo la leggenda morì a Myra il 6 dicembre del 343 d.C., e le sue reliquie furono venerate nella cattedrale della città fino al 1087, quando durante l’assedio da parte dei musulmani, Venezia e Bari si contesero le reliquie del santo per portarle nel mondo cristiano. Bari allora organizzò una spedizione di sessantadue marinai che riuscirono a sottrarre le ossa del santo e le portarono nella loro città il 9 maggio 1087. Furono deposte nella cripta della basilica di San Nicola non ancora ultimata e successivamente papa Urbano II presiedette la cerimonia che consacrò San Nicola santo di Bari. Più probabile che le reliquie furono trasportate a Bari da marinai greci nel periodo delle Crociate. Dalla città del profondo sud italiano la figura del santo ha viaggiato e varcato i confini, attraversato montagne e affascinato i popoli germanici che ne hanno riportato la loro versione anche a Trieste, dove al tempo del porto franco la comunità greca venerava il santo tanto da dedicargli la chiesa di culto.

Ed eccoci alla storia di San Nicolò a Trieste, vissuta dai bambini del popolo e celebrata nella famosa fiera. Inizialmente due furono le principali fiere popolari della vecchia Trieste: la fiera di San Michele (29 settembre), che durava per più di una settimana e si teneva in via Carducci (antica Contrada del Torrente), e la fiera di San Nicolò (6 dicembre) che rallegrava per tre giorni i severi palazzi di via Mazzini (via Nuova). La fiera di San Michele si mantenne fino alla fine dell’800 e poi scomparve, quella di San Nicolò, trasferita in altre contrade, dura ancora, resistendo al tempo, ai “riformatori” e anche alla pandemia. Narra la leggenda popolare di come il santo di Patara scenda dal cielo nella notte tra il 5 e il 6 dicembre per portare doni ai bambini buoni. A seconda delle varianti, San Nicolò porta i regali in un capace sacco portato sulle spalle e nel suo faticoso percorso è aiutato dagli angeli, oppure è seguito da un asinello con le bisacce cariche di giocattoli, frutta e dolci.

Nelle raffigurazioni del santo e nelle riproduzioni colorate in zucchero o in cartone, che si vedevano nelle fiere di un tempo, San Nicolò era rappresentato vestito da un manto rosso, la testa coperta dalla mitra dorata (copricapo bicuspidale), il pastorale nella mano destra e un libro nella sinistra con sopra quattro mele disposte a piramide: simbolo dei doni destinati agli scolari. Nei racconti e nelle illustrazioni per bambini, il santo dalla lunga barba candida aveva il cappuccio, incedeva lento nella notte – seguito dall’asinello – sotto il nevischio spinto da gelido vento, per le strade bianche di neve. A rendere più familiare questa visione nordica del santo concorsero certamente i libri e le stampe del mondo tedesco al tempo dell’Austria. All’epoca però anche a Trieste e in Istria a dicembre si era in pieno inverno e quindi la rappresentazione appariva calzante. Infatti, dicembre era detto: “de neve, fredo, scuro e brontolon”, “de rosade o suto” e solo raramente “variabile e bel”. A quei tempi, specialmente le classi lavoratrici, non erano molto avvezze in doni ai ragazzi, i soldi erano pochi ma per fortuna lo erano anche i desideri, così la festa di San Nicolò era attesa con molta impazienza e la fiera alla sua vigilia donava alla città un’atmosfera di lieta gioiosità. Sia a Trieste che in Istria, ma anche in Friuli, Veneto e altre regioni, popolare era il detto: “San Nicolò di Bari, la festa dei scolari”. Alcune settimane prima della festa i bambini iniziavano a chiedere se avrebbero ricevuto i loro doni preferiti, così si consigliava di scrivere una letterina al santo con l’elenco dei regali. La lettera veniva posta sul davanzale della finestra la sera della vigilia di San Nicolò, assieme ai piatti e alle tazze per i doni e anche alle scarpe lucide, per dimostrare che si è stati bravi. Nel sobborgo di San Luigi, i bambini si recavano davanti alla statua di un guerriero che ornava la porta di una villa e credendola la raffigurazione del santo, esprimevano ad alta voce i loro desideri. Erano, invero, desideri semplici, come modesta era la vita di allora: “San Nicolò, a mi portime un cavalin”, “a mi una trombetta”, “a mi una pupa”. La fiera aveva inizio qualche giorno prima del 6 dicembre e si teneva lungo la via Nuova o Nova, nel tratto che va dalla vecchia piazza della Legna (piazza Goldoni) a piazza Gadola (poi piazza Nuova, piazza Mazzini e oggi piazza della Repubblica), estendendosi nelle vie laterali (via San Lazzaro, piazza San Giovanni, via Santa Caterina). Il tratto di via Nuova, in cui si teneva la fiera, era fiancheggiato da botteghe piuttosto modeste di terraglie, impagliatori, stoffe, piccoli bazar.

C’erano pure negozietti di sarte che confezionavano vestiti di poco prezzo per il popolo e per la gente di campagna. Nella piazza Gadola si teneva anche un mercatino giornaliero; in grandi ceste erano esposte pezze di stoffa, calze, ricami, calzature ordinarie e altri prodotti per il popolo. I ricami e le calze venivano lavorati sul posto dalle popolane che li vendevano ai clienti.

In questa cornice di vecchia provincia si teneva la fiera di San Nicolò, animata da venditori occasionali e ambulanti che piantavano ai lati della strada le loro bancarelle piuttosto grezze, zeppe di ogni sorta di mercanzie: giocattoli economici di latta o legno – molti fabbricati in casa – piccole bambole o pupe di pezza, trombette di latta, tamburi, subioti (fischietti), fucili e spade, elmi di cartone e poi tanti dolci, arance, mele e frutta secca. Numerosi erano i San Nicolò di zucchero o di cartone e tante altre figure, e dolcetti di ogni tipo. Accanto ai doni c’erano pure la bacchette, sibe, o fruste, scurie per i bambini cattivi.

La sera della vigilia di San Nicolò tutta la città si animava e diventava festosa e i negozi di giocattoli, le pasticcerie e le baracche di frutta e verdura erano dedicati alla festività. Alla luce delle candele e delle lampade a gas che illuminavano la fiera, in mezzo all’allegria e al brusio, al grido dei venditori, la gente del popolo faceva gli ultimi acquisti. Tornati a casa, i bambini ponevano i piatti sul davanzale e andavano a dormire, con la raccomandazione dei genitori de tegnir ben seradi i oci e de dormir presto, perché se nò San Nicolò non ve porta gnente.

Di prima mattina, per strada, le trombette e i fischietti annunciavano il passaggio di San Nicolò che aveva lasciato i doni. Dopo la Prima guerra mondiale e l’avvento dell’Italia, la fiera riprese nel 1923 ma fu trasportata in viale XX Settembre (viale dell’Acquedotto). La fiera già allora partiva dai Portici di Chiozza fino al Politeama Rossetti, però appariva orfana di quella spensieratezza e festosità che l’aveva caratterizzata in passato. Alla fiera iniziarono a partecipare gli ambulanti di varie regioni e sulle bancarelle illuminate dalla luce elettrica si trovavano prodotti dell’artigianato fiorentino, guanti e cravatte, vetri di Murano e libri nuovi o usati. I giocattoli non la facevano più da padroni e la festa del fanciullo diventò quella dell’adulto che cercava l’occasione o il prodotto insolito. L’Italia cercò in qualche modo di estirpare la tradizione di San Nicolò, ritenuta troppo nordica e “tedesca” e provò a sostituirla con la Befana, celebrata in tutta Italia, ritenuta più rispondente rispetto al vescovo di Myra. Ma la tradizione triestina resistette e rimase fedele al suo vecchio santo. La Befana divenne una celebrazione ufficiale e non trovò nessun eco nel popolo. Lo stesso discorso vale anche per l’Istria, dove la festa di San Nicolò era ugualmente sentita.

A Capodistria, a Montona, a Pinguente, a Pisino, a Dignano un familiare si travestiva da San Nicolò e coperto dal manto rosso, la mitra sul capo e il sacco sulle spalle, si presentava ai bambini che lo attendevano. Prima di spartire i doni faceva recitare ai bimbi qualche preghiera e si faceva promettere che sarebbero stati buoni e ubbidienti. Anche gli sloveni della Carniola e del Carso veneravano San Nicolò – Sveti Miklauz – che portava doni. La sera del 5 dicembre un uomo vestito di una lunga veste bianca, con la mitra dorata sul capo, montato su un cavallo bianco, andava in giro per i borghi e i villaggi a distribuire doni; i bambini si inginocchiavano e pregavano ed egli offriva mele, pere, noci e altra frutta. Il santo, come nei paesi nordici, era accompagnato da un servo, il parkelj. Pagana e a tratti inquietante la celebrazione in Carnia legata ai Krampus, i diavoli o fauni che furono battuti da San Nicolò. Il rituale si tiene il 5 dicembre e celebra il santo di Myra, intrecciandosi con reminiscenze pagane, e coinvolge la Carnia (in particolare il tarvisiano), l’Alto Adige, la Baviera e il Tirolo. Il travestimento dei krampus è di uomini caproni che spaventano i bambini e prendono i giovani ragazzi a colpi di pertica sulle gambe. Le maschere simboleggiano i demoni, le vesti lacere e consunte; in testa portano vistose corna e palesano il loro arrivo con il molesto rumore dei campanacci e grida animalesche. La tradizione pare legata al solstizio d’inverno ed è di grande impatto folcloristico. A Tarvisio il krampus bianco giunge in piazza, si inchina a San Nicolò e si allontana in assoluto silenzio. In pratica la vittoria del cristianesimo sulle antiche religioni pagane ma anche un amalgama di usi e costumi che si lega alla particolarità culturale del nostro territorio.

Tornando al San Nicolò triestino e alla sua fiera, con il passare degli anni e dei decenni, la ricorrenza si è trasformata in un agglomerato di bancarelle con i prodotti più disparati: dagli strofinacci “magici” alle pentole inox, dalla biancheria prodotta in Asia a piccoli elettrodomestici che durano un anno al massimo, fino alla moda attuale dei prodotti enogastronomici da ogni zona d’Italia. Molto o quasi tutto della magia passata si è perso nell’epoca dell’acquisto compulsivo su internet, però noto in tanti che il desiderio di vedere e vivere i mercatini di una volta è sempre più vivo. Sarà che oramai viviamo da reclusi o quasi e dobbiamo mostrare il codice QR anche per andare alla toilette, però mi sembra che il desiderio di riavere il San Nicolò della nostra infanzia sia sempre più un’esigenza. L’ateismo, il relativismo culturale, l’individualismo che avvelena e imbestialisce l’uomo sono minacce a tutto ciò che c’è di sacro e spirituale nella nostra martoriata civiltà.

Nel mio piccolo ho voluto raccontarvi questa storia, farvi volare per un momento sulle ali dei vostri ricordi infantili e vi invito, a tal proposito, di esplorarli, di ricordare e di andare subito in una pasticceria, un negozietto di dolci, acquistare un San Nicolò di cioccolato e metterlo sull’albero di Natale.

Sarà anche una piccola cosa, una goccia nell’oceano del nulla imperante, ma ricordatevi, a lungo andare la goccia spacca la roccia. Buon San Nicolò a tutti.