Yule, il solstizio d’inverno
Siamo nel solstizio d’inverno, il giorno del “sole fermo” (dal lat. Solstitium) che per i popoli del Nord era Yule, dal norvegese Iul, “ruota”, ovvero un punto definito nella ruota dell’anno. Ho già parlato di questa ricorrenza presso i popoli scandinavi e sassoni nell’articolo Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia. Qui vi racconto la versione celtica di questa ricorrenza, con miti e usanze mutuate dagli antichi norvegesi ma anche con delle peculiarità tipiche della propria cultura. Le feste celtiche, come scrivo spesso, sono tutte legate alle fasi lunari e solari della terra, ad una visione ciclica tipica delle società agricole. Yule o il solstizio d’inverno è una delle quattro feste solari celebrate dall’antico popolo celtico, assieme all’equinozio di primavera (Oestara), il solstizio d’estate (Lithà) e l’equinozio d’autunno (Mabon). I festeggiamenti si svolgevano per alcuni giorni, indicativamente tra il 19 e il 21 dicembre e tanti erano i rituali propiziatori ad essi dedicati. La ricorrenza aveva anche un significato fortemente esoterico, alimentato dalla cultura druidica e da una simbologia che segnava il passaggio dalle tenebre alla luce; infatti, dopo il solstizio d’inverno – la notte più lunga dell’anno – i giorni sono destinati ad allungarsi e le notti ad accorciarsi. Nella visione politeista ed animista celtica, il re oscuro è il sole morente che si trasforma nel sole bambino, attraverso la rinascita della dea, la terra madre. Il vero sole che avrebbe rischiarato le tenebre era appunto il nascente sole bambino, imprigionato nel mondo sotterraneo da Arawn e rinato dal ventre di Ceridwen, la dea strega dell’inverno.
Un’idea suggestiva che richiama il sol invictus dei Romani e il nostro Natale cristiano; pure nei simboli che tuttora utilizziamo per addobbare la casa per le festività vi è questa antica origine. Il vischio, per esempio, pianta simbolo della vita presso i druidi, in quanto discesa dal cielo e figlia del fulmine, veniva unita alla quercia, a rappresentare l’eternità, in una ruota che passava dalla morte alla rinascita. Nel mondo anglosassone la tradizione del vischio (mistletoe) la troviamo in tutte le classiche canzoni natalizie e persiste l’usanza di appenderlo in modo da baciarsi sotto, quale rito propiziatorio. L’albero di Natale per i Celti era l’albero solstiziale, di Yule, decorato con rappresentazioni del sole e con i campanelli.
Lo si portava in casa per dare riparo agli spiriti del bosco e sulla cima si poneva una stella a cinque punte, in quanto per i Celti cinque erano gli elementi che componevano il mondo: acqua, aria, terra, fuoco e spirito. Un’altra tradizione era rappresentata dal ramo dei desideri; si raccoglieva nel bosco un ramo di grandi dimensioni (un sempreverde), poi lo si dipingeva generalmente con una vernice color oro e si terminava addobbandolo con nastrini rossi.
Andava preparato nove giorni prima del solstizio e appeso all’ingresso di casa; la tradizione si ripete ancora e le persone che visitano l’abitazione, scrivono un desiderio sul nastro rosso che resterà appeso al ramo. Il giorno di Yule, o per meglio dire di Natale, si accenderà il ceppo del solstizio e si brucerà il ramo dei desideri, in modo che nel fumo salgano anche le aspirazioni e arrivino in cielo. Il ceppo di Yule, successivamente Christmas Log, era un semplice tronco di quercia acceso e spento per dodici giorni da tutti i membri della famiglia, dal più giovane al più vecchio, e poi le sue ceneri sparse a protezione da eventi negativi. Le ghirlande di agrifoglio, appese sulla porta di casa, con le loro bacche rosse, simboleggiano la ruota dell’anno e la fine dell’oscurità; oramai sono usanza anche alle nostre latitudini e le utilizziamo per abbellire le tavole natalizie. Le figure di marzapane o di biscotto che appendiamo agli alberi di Natale, invece, hanno un significato sinistro, seppure di buon auspicio per attraversare il freddo e oscuro inverno. Sono trasposizioni delle impiccagioni che venivano fatte in questo periodo per chiedere aiuto a Wotan (Odino), massima divinità vichinga e dio della vittoria, a sua volta impiccato all’albero della vita.
Anche se di chiara origine norrena, la festa di Yule era importante presso i Celti e vi si celebrava il fuoco e la luce, per aiutare il sole nella sua lotta contro l’oscurità. Tra Norreni e Germani la festa assumeva un carattere oscuro, si sacrificavano degli animali, in ricordo della caccia di Odino che esigeva vite umane (l’inverno nordico imponeva molte perdite nelle antiche tribù); era anche un periodo di canti e danze, di banchetti e libagioni, per portare luce e calore nei momenti più freddi dell’anno.
In questo secondo Natale al tempo della pandemia, vedere la luce del ceppo acceso e della fine della tenebra appare assai difficile; ci promettono chiusure e restrizioni, la nostra libertà oramai nel dimenticatoio e “regole” per trovarci nelle nostre case, con parenti e amici, a dir poco surreali. Un Natale oscuro e triste, avvelenato dai media che bramano catastrofi, talmente scoraggiante che persino i forti Vichinghi ne avrebbero timore. Faccio fatica ad invitarvi a celebrare il solstizio, come si fa da oltre duemila anni, poiché anch’io mi sento mortificata; forse la visione cristiana, il nostro Natale, ci dà maggiori speranze, perché è sulla speranza che si fonda ogni significato della cristianità. Però viviamo in un’Europa totalmente atea che non ha voluto menzionare i valori cristiani nella sua Costituzione; un’Europa che non ama le chiese e le statue dei santi, i canti natalizi e la simbologia religiosa, tanto da pensare di togliere anche il “Buon Natale” dai biglietti augurali. Dove cercare la speranza, allora? Vi posso solamente dire dove la cerco io: nelle antiche tradizioni, nei legami tra mondo pagano e cristiano, nella simbologia che attraversa i millenni e ci fa sentire simili a ciò che eravamo tanto tempo fa: in armonia con la natura e i suoi cicli. Forse è vero che più buio di mezzanotte non può fare, specie se è la mezzanotte del giorno più corto dell’anno, e magari questo incubo finirà e torneremo ad una vita normale. Mi auguro che accadrà e che rinasceremo nella luce, così i miti del mondo antico non saranno più un rifugio ma solo la nostra storia lontana, da conoscere, rispettare e tramandare.