Ritrovare l’Istria
Non venivo nella casa d’infanzia da ben due anni e mezzo, dal mese di giugno del 2019, quando salvai il mio meraviglioso gatto Bilbo, sopravvissuto alla durezza della vita in modo miracoloso. Figlio anche lui di questa terra contesa e violata, aggredita e brutalizzata ma sempre viva, eternamente viva nella sua cruda bellezza. Tanti motivi pratici mi hanno tenuta lontana dall’antico focolare, non da ultimo la pandemia che ha ridefinito le nostre esistenze. Poi le situazioni si risolvono, trovano un naturale superamento, e si fa ritorno ai ricordi e ai profumi mai dimenticati.
Il legno dei pavimenti fatti da mio nonno, le travi settecentesche lucidate, i servizi da tè e caffè di porcellana, le lampade anticate dalla luce soffusa e la grande cucina, spaziosa, ricca di utensili e con lo spargher a legna dove i piatti preparati hanno tutto un altro sapore. Ti ritrovi nel mondo più familiare e congeniale alla tua anima, intriso della tua essenza, eppure lo percepisci diverso; l’abbandono, la polvere, le ragnatele, l’odore di chiuso mescolato ai fiori secchi di lavanda, e all’esterno tutto trascurato, l’orto invaso dalle erbacce, il muretto a secco sepolto da una giungla di rovi e rami d’edera. Il bosco lambisce il muro sul retro, i rami dei noci spogli toccano quasi il suolo e l’erba alta, ingiallita e arsa dal gelo, arriva alle finestre del pian terreno.
Le pulizie frenetiche, l’odore del detersivo ovunque, il bucato steso sulle vecchie corde davanti a casa; poi i lavori pesanti nell’orto, la sterpaglia da portare via con la carriola, i rastrelli da usare con forza, le cesoie per i rami secchi e per i rovi spinosi, la roncola da abbattere sui cespugli che insidiano il muretto. Quella forza incredibile che solo qui riesco a trovare, quell’energia che viene dal profondo e mi fa sentire più forte di un uomo, capace di caricare sulle spalle sacchi di pellet da portare nel salottino di legno, attraverso una ripida scala vecchia di qualche secolo.
La solitudine è assoluta, passano i giorni e non parlo con nessuno, non mi manca niente e non desidero niente. Gli animali sonnecchiano sui divani, nelle cucce calde e morbide, sembrano sereni. Il capobranco, il cane Poldo, trascorre l’ultima fase della sua vita nella casa che ama di più, padrone del suo cortile, vedetta nelle passeggiate nei boschi. La malattia lo ha sfiancato, indebolito, lasciandogli profonde cicatrici; so che non resterà con me per molto tempo, volerà via verso un mondo lontano di libertà assoluta da dove mi osserverà negli anni a venire. Il legame con la natura, quel profondo senso di appartenenza al Creato, al mondo animale e vegetale, dove gli esseri non hanno padroni se non le regole della terra madre; sento di appartenere a questa dimensione fino all’ultima cellula, all’ultimo atomo che mi compone e definisce e questa consapevolezza, nella fase della vita in cui i fili d’argento compaiono tre i capelli e i sussulti della giovinezza si assopiscono del tutto, mi suggerisce di non sopportare oltre l’ambiente folle nel quale vivo e che un tempo ho tanto amato.
Non è facile ammettere tutto ciò, nemmeno a se stessi, però quell’antico richiamo che ho sempre sentito tra le rocce del carso di Stridone, nei boschi incolti, tra i campi arati di fresco, nei silenzi infiniti, lo percepisco talmente forte che neanche il profumo del mare nella mia bella casa triestina riesce a silenziare. Le albe maestose di ghiaccio e brina, i tramonti che accendono di viola il cielo, i prati a riposo, la nebbia nelle valli, la terra scura dei campi che promette una stagione di vita e il borgo natio, quel campanile di pietra bianca che domina l’abitato, le vestigia antiche del castello medievale in lontananza; mi muovo in mezzo alle case dell’infanzia riportate alla vita, ristrutturate e con porticati e costruzioni nuove, stradine curate e altre abbandonate, pinete che incontrano i campi e visuali che ho impresse nella memoria ma che in ogni stagione, in ogni fase, regalano sensazioni completamente diverse.
Poi vado a Pinguente, arroccata sul monte tra le balze e la roccia, e mi trattengo nel parco con tanti gradini e sentieri curati. La vista sulla cittadina antica di millenni è un incanto: le case fortificate sembrano uno scrigno indistruttibile che racchiude un dedalo di viuzze e giardini barocchi.
Una visita al negozio di stoffe dove mi perdo tra tessuti damascati, drappi ricamati, iuta grezza, scampoli colorati e immagino progetti per la casa, tende nuove e volant a rallegrare le stanze, cuscini bizzarri per i divani e tappezzerie per rinnovare poltroncine antiche. Il ritorno verso casa passando la valle del Quieto, col fiume che appare e scompare, un sole invernale accecante e la risalita fino a Portole, con quel suo malinconico aspetto che richiama la Toscana. Un pranzo nell’agriturismo degli amici Orietta e Sandro, col tepore del fuoco acceso, in un ambiente accogliente, arricchito da fasci di erbe secche, da vecchi servizi di piatti, tazzine e teiere, bianchi splendenti.
No, andarmene non è affatto facile, il ritmo della vita di un tempo si è già impadronito di me, però gli impegni non sono rimandabili. Le presentazioni e gli incontri con i lettori a febbraio e l’immenso lavoro per la stesura del nuovo libro che uscirà prima dell’estate, mi riportano a Trieste. So, però, che il ritorno alla semplicità del mondo antico, a contatto con tutto ciò che è più vicino all’anima, nel momento in cui germoglierà la vita, sarà ancora più bello e gratificante e questo pensiero mi accompagnerà, mi sosterà in questa nuova sfida con me stessa.