Culti di maggio
La bella stagione sta raggiungendo il suo culmine e i fiori di maggio sono un tripudio di colori e profumi. Il clima addolcito e le giornate lunghe anticipano periodi più caldi, abiti leggeri e serate all’aria aperta. Osservando la natura in questi giorni, ho pensato, come mi capita spesso, alla letteratura. In particolare, ai componimenti poetici inglesi dell’Alto Medioevo, ricchi di leggende importate dagli invasori (Sassoni, Angli, Juti). I versi allitterati della poesia anglosassone, liberi e non vincolati da regole rigide, hanno generato quel capolavoro di poesia epica che è il Beowulf, 3200 versi che raccontano la vita pagana delle tribù germaniche del 700 d.C. quando quelle popolazioni erano già convertite al cristianesimo.
Gli inglesi mescolarono le parabole cristiane ai simboli di un tempo antico, scrivendo le storie dei santi in caratteri runici. Si ingentilirono studiano il francese, insegnandolo nelle scuole fino alla prima metà del Trecento. Poi, il più grande poeta inglese del Medioevo, Geoffrey Chaucer, scrisse i Racconti di Canterbury, una brillante raccolta di novelle che evocano un mondo gaio, multiforme e pittoresco, alieno da qualsiasi preoccupazione religiosa. A questo mondo si collega il May day, il Calendimaggio, che si celebrava nei villaggi dell’Inghilterra, del Galles, della Scozia e si ricorda ancora con certi rituali. L’arrivo della primavera era festeggiato con l’albero di maggio legato al culto arboreo degli antichi Celti. Gli alberi erano considerati divinità benefiche, dispensatrici di vita, segni tangibili nel loro fiorire stagionale della nascita della terra.
Tagliare a primavera dei rami d’albero e porli sulla casa significava portare nel villaggio la forza vivificatrice dello spirito arboreo. Da questa e da altre usanze nacquero la tradizione dell’albero di maggio, il Maypole, e l’elezione della regina di maggio.
Ben presto l’albero vero e proprio fu sostituito con un palo variopinto e adornato di fiori e nastri colorati, intorno al quale si celebrava la festa. Ancora oggi, nonostante i secoli trascorsi e la dura opposizione dei puritani che giudicarono le feste campestri come peccaminose, il ritorno della primavera dà luogo a riunioni e fuochi che si accendono sulle colline.
Facendo un salto ideale in Belgio, un curioso primo maggio dava vita un tempo ad un corteo religioso in onore di Saint Evermare e si concludeva con un jeu le cui origini risalgono al Medioevo: una burlesca caccia all’uomo tra i frutteti in fiore, in cui si rievocava l’uccisione del santo e dei suoi compagni avvenuta nel 699 ad opera del brigante Hacco. I partecipanti indossavano dei costumi: i pellegrini col bastone e il mantello, i briganti con calzoni alla zuava e grandi piume rosse sul cappello. Intorno ai boccali di birra si ritrovavano poi tutti in allegria, briganti e perseguitati.
I culti che, però, maggiormente mi colpiscono, sono quelli che si ritrovano in Germania. Il profondo legame col mondo forestale lo si ritrova nello stile delle abitazioni, col legno che è ancora usato e apprezzato per il clima piovoso e freddo contro cui offre ambienti caldi e confortevoli.
Tutto origina dalla quercia di San Bonifacio e dal suo profondo, viscerale significato nella cultura germanica. Il santo apostolo dei tedeschi fu il primo arcivescovo e fautore della conversione al cristianesimo; egli abbatté a colpi vigorosi di ascia la quercia di Donar o albero di Thor, presso Fritzlar nell’Assia, nel 725. Si trattava del più famoso emblema dell’antica religione germanica, profondamente legato al culto della natura. Ad esso si sostituì quello di un Dio creatore del mondo e del tempo, capace di soppiantare la credenza in ciò che si vede e si percepisce con i sensi. Al culto della bellezza, della forza, della potenza venne così imposta la fede in un essere invisibile e immateriale. Ma il panteismo aveva nell’animo dei tedeschi radici ben più profonde e difficili da svellere di quante ne avesse la quercia di Donar: nell’animo germanico rimase una corrente sotterranea che legava il culto al mito. La trasfigurazione della grande Vorzeit (oscuri primordi) della patria, spiega il successo incontrato dalla musica wagneriana, le cui eroiche cadenze evocavano i Nibelunghi, le Valchirie, gli elementi scatenanti, le eterne lotte tra il bene e il male e tutto quel mondo della mitologia precristiana che esercitava sempre sui tedeschi un grande fascino. L’amore per la natura non è che uno degli aspetti che il filosofo Schleiermacher definì la “religione segreta” dei tedeschi: indicativi a tale riguardo anche il culto della stirpe, del sangue, della terra. Pensando a questi aspetti primordiali, ancestrali del sentimento germanico, non si può evitare di chiedersi quanto il sogno hitleriano fosse inconciliabile con i principi cristiani di fraternità umana, ma connesso con una religione anteriore, terrestre, con gli dèi guidati da passioni umane e l’aldilà un mero rinnovarsi della vita mortale. Culto della potenza e della lotta, fatalismo, autodistruzione nel momento della sconfitta sono residui di una religione antica che hanno trovato degenerazioni, però anche la riscoperta di tradizioni popolari, il ritorno verso il primitivo.
Non posso evitare di includere anche me stessa in questa riflessione, esaminando le mie origini e convinzioni. La natura quale elemento fondamentale dell’intera esistenza, il rapporto col mondo vegetale e animale prima di quello sociale, il valore del sangue e della stirpe originaria, l’incapacità di identificarmi fino in fondo nei popoli mediterranei. Il ricordo di nonna Cramerstetter, i suoi lineamenti nordici, il corpo vigoroso e quella fierezza, quei modi algidi che la rendevano difficile; per la morte del figlio ventitreenne in Russia diede sempre la colpa a Mussolini e mai a Hitler, poiché i tedeschi, secondo lei, dovevano essere per forza migliori. Una donna fuori dal tempo che nella Jugoslavia comunista di Tito si dichiarava di nazionalità tedesca nei censimenti e in realtà il tedesco non lo parlava neppure. Mi chiedo quanto di lei possa esserci dentro di me, al di là della somiglianza fisica, e quanto questa corrente sotterranea generata dal mito e dal culto mi leghi alle forze della terra.
Ma torniamo ai culti di maggio.
“Liberi ormai dal ghiaccio sono fiumi e ruscelli grazie al dolce, vivificante sguardo della primavera.”
Faust, Goethe
Nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio grande era la celebrazione della Walpurgisnacht, la notte di Valpurga. Una ricorrenza che celebrava la primavera con canti, balli e grandi fuochi. Potrebbe definirsi una combinazione tra la celebrazione di Ostara e Beltane, la festa celtica dei “fuochi luminosi”. La leggenda racconta di come in questa magica notte le streghe uscissero dai loro rifugi e si recassero sul monte Brocken per danzare in onore della luna. Il popolo, spaventato dal baccano e dai loro balli con creature demoniache, chiese aiuto a Santa Valpurga; allora dal sepolcro della santa uscì un potente liquido taumaturgico, capace di tenere lontane tutte le megere e garantire una notte serena. Santa Valpurga di Heidenheim era una badessa del Wessex chiamata in Germania proprio da San Bonifacio, dove resse con molta saggezza due monasteri. Anche qui ritroviamo il mito antico nel suo scontro impari con la fede cristiana, con il suo potere persuasivo, in una lotta che alla fine si concluse in una fusione.
Nel Faust, Goethe dedica una parte importante alla Walpurgisnacht, nella quale Mefistofele conduce il dottor Faust in cima al monte Brocken per assistere alle danze licenziose delle streghe, degli stregoni e dei demoni, danze alle quali lo stesso Faust si unisce.
Trovare oggi questi antichi rituali risulta assai difficile, poiché ogni cosa ha un aspetto commerciale, banale e volgarizzato. La religione cristiana ha perso il suo potere, la sua capacità di convincimento, e il culto del dio denaro ha di fatto scardinato ogni tradizione, incluse le reminiscenze delle religioni pagane. In Svezia e Finlandia la notte di Valpurga si festeggia ancora con grandi falò, ma gli schermi illuminati dei cellulari che filmano tutto, postano ogni fotogramma sui social network, hanno rubato tutto il fascino all’antica celebrazione.
Per noi nostalgici non rimane che rifugiarsi nella natura, osservare il suo immortale fiorire, la trasformazione costante della sua bellezza, e magari perdersi nei miti antichi che celebrano la sua divinità.