La storia infinita in un tempo vuoto
In questi giorni di caldo torrido, in questa estate rovente e senza acqua, funestata da incendi devastanti e crisi fuori controllo, mi ritrovo nella mia vecchia casa istriana. Anche qui, circondata da boschi e dalle catene montuose, il caldo è a tratti insopportabile. L’erba arsa dalla calura intorno alle rocce carsiche, i torrenti secchi e l’orto desolato dove soffrono persino le erbe aromatiche, non lasciano presagire tempi facili. Poi, però, arriva la pioggia, improvvisamente, con tuoni e lampi, con fulmini e saette e mi pare di tornare bambina, quando mancava la luce a ogni temporale e mia madre accendeva le vecchie e affascinanti lampade a petrolio che rischiaravano la casa buia. Allora ho deciso di fare un ulteriore tuffo nel passato: ho rivisto il film La storia infinita. Ricordo la sua uscita, preceduta da tanta pubblicità e con la colonna sonora che imperversava in tutte le radio. Dalla piccola Stridone, isolata dal mondo e depressa in un’economia della sopravvivenza, era impossibile per me, ragazzina di appena undici anni, raggiungere un cinema e vedere il film che sognavo la notte. Seguivo tutti i trailer che si vedevano alla televisione e le rubriche di spettacolo che ne parlavano. Era una produzione tedesca con un grosso contributo americano e britannico, per un film del talentuoso Wolfgang Petersen. Il soggetto, tratto dal famoso e omonimo romanzo di Michael Ende, però ne differiva notevolmente. Un film magico, con i migliori effetti speciali dell’epoca (siamo nel 1984), le musiche di Giorgio Moroder e tanti giovanissimi attori nei quali una ragazzina sognatrice, solitaria e un po’ asociale, poteva facilmente identificarsi.
Nei miei sogni volavo lontano col drago Falkor, combattevo mille battaglie con Atreyu e mi rivedevo in Bastian, chiuso nella soffitta della scuola a immaginare unicorni e creature fantastiche. Poi, però, si cresce e le parole della bestia, del mostruoso Gmork, colpiscono più della bellezza del regno di Fantàsia. Il mostro, un gigantesco lupo dal pelo nero come la notte, inizia a seguire Atreyu appena questi parte col destriero Artax dalla torre d’avorio, dove l’imperatrice e tutto il regno si stanno spegnendo a causa del Nulla, un male misterioso, un vuoto opprimente che uccide la vitalità di Fantàsia, e soltanto il giovane guerriero ha qualche possibilità di salvarli. La bestia è servo del Nulla, come egli stesso confida ad Atreyu prima dello scontro finale, poiché è più facile obbedire al potere che combatterlo. Il Nulla è ovunque, inghiotte tutto, distrugge ogni mito e ogni creatura di Fantàsia: il regno dell’immaginazione umana che soccombe perché gli uomini hanno smesso di sognare e di sperare. Il lieto fine della storia, la vittoria della fantasia sulla cruda realtà, era confortante per una ragazzina dal futuro decisamente incerto e con poche possibilità di successo nella vita. Partire svantaggiati può essere un grande sprono per lottare ma è anche un feroce limite che non sempre si riesce a superare. All’epoca non ci pensavo, non ci volevo credere ed era giusto così. Rimasi male nell’apprendere che lo scrittore Michael Ende cercò di bloccare il film; accusò i produttori e il regista di averlo tradito e ignorato, intentò persino una causa per far togliere il suo nome dal film, ma la perse. Da autrice capisco la sua amarezza, specialmente pensando alla difficile vita di questo grande scrittore che visse con dolore la sua giovinezza nella Germania nazista. Era un uomo sensibile, capace di portare i drammi della vita nella sua narrativa, rendendoli magici e ripuliti da tutte le brutture della realtà. Fu criticato dai soliti “esperti” quando il libro uscì, esperti che sembrano sapere tutto ma all’atto pratico scrivono soltanto banalità: lo accusarono di cercare rifugio nel mondo della fantasia quando la Guerra Fredda esigeva il più puro realismo. Ende preferì godersi il meritato successo e non badare ai critici e alle loro elucubrazioni. Il film, però, rappresentò un duro colpo e fu la prova pratica che nemmeno uno scrittore si può rifugiare nel suo mondo di fantasia, perché c’è sempre qualche carogna che lo afferra per le gambe e lo trascina nella realtà fatta di giochi sporchi. Ciononostante, per me, come per milioni di altri adolescenti della mia generazione, quel film non era un cartoon di pupazzi e plastica come l’autore credeva, ma una storia meravigliosa e infinita, capace di dare emozioni e dolci nostalgie a distanza di decenni. Chissà, se Ende fosse ancora vivo e vedesse le porcate fantasy prodotte da Netflix o Amazon, magari si ricrederebbe sulla pellicola di Petersen e sull’importanza che ha avuto per la mia generazione. Per quanto mi riguarda La storia infinita, assieme a Il mago di Oz, sono stati i racconti che mi hanno condotta qui, a scrivere e pubblicare libri. In quel periodo, quando uscì il film, scrissi una fiaba ispirata da queste grandi storie e la portai all’insegnante di lingua e letteratura croata a Portole. Era un professore burbero e piuttosto manesco, però mi aveva in simpatia. Lesse il racconto con molta attenzione mentre era in classe; ci diede un compito da fare e io, con occhiate sfuggenti, seguivo l’espressione del suo volto mentre leggeva. Lo vidi corrucciato, divertito, interessato. Non sapevo come interpretare quelle espressioni, non capivo che la storia lo coinvolgeva. Si prese qualche momento per riflettere, poi si avvicinò al mio banco (il primo, non ho mai temuto le interrogazioni) e mi disse: “Il racconto è interessante, ha tanti spunti originali. Si legge la tua vena creativa, è evidente, però occorre sgrezzarla e farla emergere.” Rimasi molto colpita, forse ero convinta di non valere e le sue parole inaspettate mi sorpresero. Fu ancora più incisivo qualche tempo dopo, quando seppe che volevo fare una scuola professionale. Chiamò i miei genitori per un incontro privato e disse loro di farmi cambiare idea, perché un talento sprecato è un errore madornale e senza senso.
Sono passati tanti anni da allora, tanti sogni e illusioni si sono infranti e qui vicino al mare, in una giornata di sole cocente, col profumo dell’Adriatico e dei pini agitati dalla brezza, scrivo queste parole che ricopierò al computer. Sono diventata una scrittrice molto tempo dopo, da adulta e disillusa, eppure credevo ancora nell’esistenza di qualcosa di buono oltre il Nulla. Dal primo romanzo in poi, tra percorsi in salita e rovinose cadute, ho combattuto come Atreyu contro coloro che mi avrebbero voluta umile, rassegnata, con un lavoro col cartellino, con una vita preordinata: moglie, madre, operaia-commessa-impiegata come si conviene ad una persona di umili origini e soprattutto senza nulla da dire. Non è andata così, non ho voluto. Il primo libro mi ha creato problemi con i parenti e ha messo in luce le mie ingenuità; ho creduto a promesse che erano burle, a sorrisi che celavano lame affilate, ad amicizie che erano coltellate alla schiena, a imprenditori che mi volevano soltanto spolpare. I libri si sono moltiplicati: due, tre, quattro, cinque, fino ai dodici attuali. Quarantanove anni compiuti ieri e dodici libri, con delle riedizioni, parecchi racconti pubblicati, lavori teatrali, questo blog che in tanti leggono. Ho combattuto il Nulla? Sì, sempre e continuerò a farlo.
Ho lasciato libera la fantasia, le ho consentito di contaminare la realtà, senza remore. I miei lettori hanno viaggiato con me, li ho portati nel mio mondo e consentito che lo plasmassero a loro modo, perché questo è il ruolo di un narratore. Non sono e non sarò mai un’autrice di successo, se per successo si intende la grande editoria e il favore della stampa mainstream, perché mi risulta impossibile ubbidire al potere, pur sapendo che senza il “politicamente corretto” di sinistra non arriverò mai da nessuna parte.
Alla mia età non è facile ammettere che il Nulla sta vincendo su tutti i fronti e che la mia stessa vita, il lavoro al quale dedico anima e corpo, non è altro che la goccia insignificante in un oceano di parole. Tuttavia, questo è il percorso che ho scelto, la via in salita che ho deciso di fare, e mentre mi accingo a scrivere un nuovo libro, mi chiedo: “Per quanto ancora continuerai?”. Me lo sono chiesto spesso, tra un libro e un altro e una delusione e un’altra; oggi ho una risposta, so esattamente quanto ancora scriverò e quando mi fermerò. Ho in mente le storie che voglio raccontare e il contributo che desidero dare alla cultura, alla mia terra, alla mia lingua. Questa è già una vittoria contro l’immensa voragine del Nulla.