Sovignacco, nascosta tra rocce e vegetazione
Il piccolo borgo rurale di Sovignacco, lontano dai flussi turistici e dalle arterie stradali, è un luogo immerso nel verde e nella quiete della campagna istriana. Vi si giunge percorrendo la strada che da Pinguente conduce al mare. Prima di arrivare nei pressi di Montona e nel sobborgo di Levade, una strada a sinistra attraversa il ponticello sul fiume Quieto e inizia a salire lungo le pendici carsiche coperte da un fitto bosco. Dopo un paio di chilometri e un incrocio, ecco comparire il colle di Sovignacco. Nella valle sottostante il borgo esisteva un’antica miniera del ‘500 dedicata a S. Pietro. Il sito merita una menzione speciale per la sua storia, oltre che una visita.
Dalla miniera si ricavavano il vetriolo, i sali di allume e la pirite. Tuttora sono visibili cumuli di detriti invasi dalla vegetazione che rimandano ad un passato fiorente durante l’ultimo secolo di dominio veneto. Dalla roccia si estraevano, per mezzo di complesse operazioni a caldo, i minerali (sali di allume e vetriolo) usati nella concia, nella tintoria e in altro. Nella miniera operavano minatori tedeschi fino al 1583, quando fu progressivamente abbandonata. Ebbe una forte ripresa alla fine del ‘600 e nel ‘700 per merito del tecnico veneziano Pietro Turrini, a cui fu affidata dal doge, conobbe il suo periodo d’oro. Egli costruì l’impianto di trasformazione dei minerali nel 1780 che occupava quasi un centinaio di persone alloggiate in baraccamenti o provenienti dai villaggi vicini. Con le sue circa mille tonnellate all’anno di materiale estratto, la miniera garantiva benessere alla comunità e alimentava una notevole corrente di esportazione. Finito il dominio veneziano, la miniera continuò a funzionare per il breve periodo napoleonico e poi per il subentro della ditta triestina Escher che impiegò un numero anche maggiore di lavoratori. La storia della miniera presso il Quieto si intreccia alla scoperta della bauxite, rinvenuta in questo sito nella seconda metà del ‘500. Le proprietà di questo minerale – dal quale si estrae il prezioso alluminio – furono pubblicate già nel 1808 (il periodo “francese”), molto prima che venisse “scoperto” nel 1821 a Les Baux (Provenza), città dalla quale ha preso il nome. L’attività fu abbandonata nel 1856 e l’ultimo suo utilizzo, alla fine degli anni ’30 del ‘900, riguarda le scorie usate al tempo dell’autarchia.
Inerpicandosi lungo la dorsale montana che dal Quieto conduce a Sovignacco, impressionanti sono i crepacci che finiscono a valle e conferiscono al luogo una cruda e primitiva bellezza. Anche la storia del borgo è fatta di stridenti contrasti e di abissi bui. L’antico nome di Sovignacco era il celtico Sovinak, tuttavia l’insediamento esisteva già in epoca preistorica ed era un castelliere dei Subocrini, una tribù degli antichi Istri. Data la sua posizione strategica sulla valle, i Romani vi installarono una postazione militare. Poi, per secoli, non se ne seppe più nulla, fino a quando i Weimar-Orlamünde, della casata degli Ascanidi (sovrani tedeschi) non la ottennero nel 1064 da Enrico IV. Fu eretto il castello sulle rovine di uno precedente e tutto il borgo venne circondato da mura possenti, di cui rimangono i resti nel terrapieno del cimitero. Nel 1102 il castello fu donato al patriarcato di Aquileia e la storia del borgo si lega alle sue vicissitudini. L’antico castello era in cima alla collina e raccoglieva intorno a sé case dei contadini e della servitù di palazzo. A poca distanza sorgeva il piccolo castello di Vetta che era d’appoggio a quello maggiore. Gli abitanti erano particolarmente vessati e obbligati a partecipare quali battitori alle battute di caccia al cervo e al cinghiale che andavano ad arricchire i banchetti castellani. Il piccolo feudo fu affidato nel XII secolo ai conti di Gorizia e concesso al gastaldo (termine longobardo “gestellen” che indicava gli amministratori dei ducati o gastaldati) nel 1277 a tale Ottone che vantava vincoli di parentela con i da Gorizia. Alla sua morte lasciò in eredità il castello alle figlie sposate con funzionari della dinastia goriziana. Ci fu uno scontro tra le due sorelle, Eufemia ed Enrichetta, e alla fine la spuntò quest’ultima che consegnò il feudo al secondo marito, Mainardo di Rasch, che assunse il nome del castello di Sovignacco. Nel 1375 i castelli di Sovignacco e Vetta passarono al ricco e influente Giovanni di Sensenberg, appartenente ad un importante casato. A quel tempo il feudo era parte delle rendite dei duchi d’Austria, gli Asburgo. Gli austriaci concedevano i loro feudi principalmente ai funzionari di corte, uno di questi cortigiani era Cristoforo Ruespacher che arrivo nel 1423 nel remoto castello di Sovignacco. Trovò un insediamento funestato da guerre, pestilenze e carestie che aveva ridotto notevolmente il numero degli abitanti del borgo e del villaggio di Vetta – si dice non più di tredici anime. Nel ‘500 apparvero nelle campagne le compagnie della Serenissima formate da mercenari albanesi, corsi e pure napoletani, guidati dal generale Damiano di Tarsia. Sottrassero il feudo agli Austriaci e presero il castello. Passarono più di due decenni prima che venisse assegnato ufficialmente alla Repubblica di Venezia che fortificò maggiormente il borgo. Il castello fu ristrutturato e assieme a Draguccio, Rozzo, Colmo e Vetta dipese dal comando di Pinguente e costituì la linea difensiva veneziana lungo il confine con la contea di Pisino. Durante la guerra di Gradisca (o degli Uscocchi) tra Venezia e l’Austria, il castello fu duramente attaccato, assediato e colpito ma tutti gli attacchi furono respinti. Del castello oggi rimangono soltanto i resti delle mura che sostengono il terrapieno. Nel paese però si trova una residenza signorile, costituita da fabbricati piuttosto fatiscenti, uniti da un portale decorato da fregi e sull’arco lo stemma dei Mantovani con la data MDCXLVII.
Sovignacco si apre al visitatore con la chiesa parrocchiale di S. Giorgio, e accanto un belvedere ombreggiato da alti ippocastani. Da qui un tempo si vedeva Stridone, ora la vista è chiusa dalla vegetazione; però, se non ci si vuole arrendere, dalle antiche mura del cimitero, scrutando tra le fronde degli alberi, eccola apparire in lontananza.
La chiesa col campanile incorporato alla facciata risale al 1577 e presenta una lapide glagolitica del 1966 (si dice copia dell’originale distrutta durante il Ventennio).
Sull’altro lato della chiesa, opposto al belvedere, crescono due grandi bagolari (o spaccasassi, in dialetto lodogni), il più imponente è noto come l’albero del consiglio; qui, come in tutti i paesi dell’Istria interna, si tenevano le riunioni del capo villaggio e dei suoi consiglieri che decidevano la gestione pubblica del paese.
Le case del borgo sono prevalentemente in pietra bianca, molte ristrutturate e diventate residenze per l’estate. Scendendo lungo la strada che attraversa il paese si incontra la chiesa di S. Rocco, protettore del villaggio dalla peste che imperversava nel Medioevo. Si tratta di una piccola chiesa campestre del XV secolo in stile tardo gotico, costruita sulla roccia carsica, e arricchita dal bellissimo porticato sostenuto da dieci colonne. L’interno conserva i resti di splendidi affreschi del maestro manierista friulano Domenico da Udine.
Sovignacco oggi è un luogo poco abitato, con molte case di proprietà straniera e alloggi per i turisti. La vecchia osteria è diventata un ristorante decisamente costoso, però con una spettacolare vista sulla valle e i colli circostanti. Ci sono ancora abitazioni diroccate, abbandonate al tempo dell’esodo, e tanti campi di terra rossa coltivati a ortaggi e viti.
L’ho rivista in una giornata di caldo torrido, quest’estate. Le colture erano arse dalla calura e della mancanza d’acqua, circondate da muretti a secco che raccontavano una palpabile desolazione. Non c’era anima viva, tranne una signora con un simpatico cagnolino; con lei ho parlato in italiano e mi è sembrato rincuorante. Mi sono chiesta quanto questi paesini deliziosi, isolati e perduti nel tempo, potranno ancora resistere al cambiamento, alla trasformazione in oasi di pace per stranieri benestanti e disabitati per buona parte dell’anno. Se vi trovate nella valle del Quieto tra Montona e Pinguente, visitate questi luoghi singolari, assaporate la loro atmosfera unica, nata dalla spaccatura della roccia carsica che il fiume ha eroso nei millenni.