Il bosco in autunno
In questa giornata di vento forte e pioggia ghiacciata che sbatte contro i vetri, guardo dalla finestra il mare inquieto e gli alti pini agitati dalla Bora. L’inverno è arrivato tardi e ha lasciato indugiare l’autunno, con i suoi colori accesi e l’aria polverosa. Adesso, però, il vento e il ghiaccio baciano il suolo col loro algido tocco, spargono cristalli di brina sull’erba incolore e mostrano la nudità degli alberi nel loro profondo letargo. Così ripenso ai colori di novembre, quando a Stridone ho vagato tutti i giorni per le strade solitarie, nelle profondità boschive, per catturare i colori accesi delle foglie un attimo prima della loro scomparsa.
Erano giornate particolari, in un paese con poche anime dove nessuno parla con nessuno, e in quei silenzi lunghi e ininterrotti ho ritrovato la bellezza del bosco in autunno. I miei animali, cani e gatti, esploravano il cortile e l’orto, cercando i loro fili d’erba e il profumo del rosmarino e della lavanda; Bilbo, il gatto invalido che ho salvato anni fa, mi divertiva nel suo affannoso gioco con le foglie ingiallite e mi ritrovavo a ridere di gusto, da sola, o meglio, senza i miei simili. C’era una gattina grigia che aveva stretto un’affettuosa amicizia con lui ed io mi ero illusa che si poteva restare felici. Un autunno indimenticabile, spezzato in dicembre, quando al mio ritorno i gattini del borgo (anche i cuccioli) sono tutti scomparsi, inclusa la gattina grigia, uccisi da qualcuno, da quella inciviltà del mio borgo natale che mi ha sempre ferito e mi ha spinto a fuggire. Riguardo le foto di novembre e penso a quella luce che filtrava attraverso le foglie morenti, ai tanti incantevoli scorci di Stridone che ho imprigionato nelle immagini, dove non appare la bestialità dell’uomo, così superiore a tutti gli altri esseri del Creato, e che continua a spezzarmi il cuore per la sua inutilità.
Non ci sarà più un autunno così nella mia vita, un momento di beata solitudine e di bellezza, di dolcezza tra i rami contorti del gelso e nel profumo delle ultime pallide rose, perché mi sento più ferita di prima e i miei occhi ormai invecchiati, circondati da piccole rughe, bisognosi degli occhiali per scrivere, hanno dovuto assistere all’ennesimo crudele spettacolo delle vita. Tutto è cambiato in quel sfortunato dicembre: la mia salute è peggiorata, la pioggia ha deciso di non fermarsi più, i vicini hanno macellato i maiali con metodi medievali, i cacciatori hanno organizzato brutali battute di caccia nel bosco sotto casa e ho visto l’osceno spettacolo dei cinghiali impallinati per strada, con le loro viscere sparse nei boschi e sui sentieri che avevo percorso in solitudine appena pochi giorni prima. Non sarebbe giusto, però, omettere la bellezza del racconto e delle immagini dalla lettura di questo brano, perché occorre avere la forza di strappare, estrapolare il bello che c’è nel mondo, nella natura, nonostante l’imbruttimento e il fango della cultura barbara.
Ho scoperto tra il bosco i resti di un’antica chiesa, o per meglio dire, ho riconosciuto il suo perimetro invaso dalla vegetazione; un momento speciale nel quale ho compreso, con assoluta chiarezza, quanto sia fantastico il tempo che passa per una donna come me, curiosa di sapere e conoscere. Da ragazzina in quel posto ci sono stata molte volte ma i miei allora giovani occhi, lontani dalle insidie del tempo, non erano in grado di riconoscere la storia e la sacralità delle antiche mura di arenaria nera. Mi sono persa tra luci e ombre, ho vagato nelle nebbie che si levavano dalla valle e ho atteso che il sole facesse capolino e squarciasse il fumo bianco d’umidità che celava la linea del borgo.
La terra da rossa diventava chiara e argillosa, si perdeva tra le radici emerse dei pini e il bosco mi avvolgeva nella sua magia, tra le sue robuste braccia di legno, proteggendo il mio cuore nelle sue profondità, nascondendomi al mondo coi fitti tronchi e gli arbusti spinosi, in compagnia delle sue creature.
Poi, nel bosco dei castagni, poco prima dell’imbrunire, la luce mi ha stregata: tra le foglie gialle e rosse, nelle loro tonalità dorate, gli ultimi raggi di sole hanno colpito il mio viso e un senso di profonda beatitudine ha acquietato la mia anima. Un attimo, un breve frangente che sapeva di eternità, sull’antico sentiero di pietre che conduce nelle profondità carsiche di un bosco istriano; un luogo dove smarrire la mente per incontrare finalmente l’Essere, senza filtri, nella sua pura essenza. Ho sentito dentro di me la voce degli avi, delle antiche tribù celtiche che veneravano gli alberi e li consideravano divinità, interiorizzando la natura e mescolandola alla storia umana. Sono ritornata a casa serena, in pace con me stessa e con l’anima.
Un dolce autunno cristallizzato nella memoria, soave nella sua maestosità, che conserverò tra i ricordi. A voi dedico le fotografie e vi invito a godere dei colori, delle sfumature, delle suggestioni dei boschi.
Concludo con un brano di Tolkien tratto da Lo Hobbit, dove si parla del Dì di Durin: Elron, re degli Elfi di Granburrone, chiede a Thorin Scudodiquercia, cosa sia questo giorno:
“Il primo giorno dell’anno nuovo dei Nani”, disse Thorin, “è, come tutti dovrebbero sapere, il primo giorno dell’ultima luna d’autunno alle soglie dell’inverno. Lo chiamano anche “Giorno di Durin” ed è quando l’ultima luna d’autunno e il sole stanno insieme nel cielo.”