In questo articolo sento la necessità di citare Dante, poiché tutti nella vita abbiamo sentito i suoi immortali versi avvicinarsi al nostro vissuto, a quell’attimo particolare in cui siamo davanti ad un bivio e il sommo poeta, descrivendo se stesso, ha descritto tutti noi. Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita; mai come ora che mi avvicino rapidamente ai cinquant’anni questi versi raccontano lo stato di profonda consapevolezza che sto vivendo, anche se la selva è oscura e la via si cela tra luci e ombre. Ed è stato così che lo scorso autunno, in un’innocua passeggiata nei boschi di Stridone, armata di macchina fotografica per cogliere i brillanti colori delle foglie morenti, ho percorso un sentiero della storia e della mia intera esistenza. Stavo piuttosto male fisicamente, il mio corpo intossicato da problemi metabolici e poca cura di me stessa stava lanciando messaggi di morte sempre più intensi e dolorosi. Sentivo che la bufera stava arrivando e che anche psicologicamente ne sarei rimasta devastata. Come ho avuto modo di scrivere in un articolo precedente, poco tempo dopo tutti i gatti del borgo sono stati ammazzati e l’orrore di un cinghiale ucciso in mezzo alla strada, come se niente fosse, mi ha chiarito, forse definitivamente, che l’imbarbarimento e l’assoluta balcanizzazione di Stridone è un processo compiuto e irreversibile. Non appartengo più a quel luogo, nessuna delle mie cellule ne fa più parte, rimane soltanto il ricordo di un tempo lontano che non ho vissuto ma che è rimasto nei racconti, nei libri, nelle immagini sbiadite delle memorie altrui.
Tra dicembre e gennaio la sofferenza fisica e quella psicologica sono diventate tutt’una, senza soluzione di continuità, e le cose sono precipitate a febbraio. Ho reagito, poiché nella selva oscura non ci si deve arrendere ma occorre proseguire il cammino, per quanto confuso possa sembrare. Non ne sono fuori, le fitte improvvise, cattive e feroci, mi fanno capire la lunghezza del percorso e l’assoluta necessità di non abbandonare mai il sentiero, un po’ come disse Gandalf alla compagnia di Thorin davanti al Bosco Atro. Citare sempre Tolkien, anche in un pezzo dove scrivo di Dante, rimane un mio vezzo di cui non riuscirò mai a liberarmi.
In questo grigio pomeriggio dall’aria intiepidita da un timido inizio di primavera, ritorno in quel bosco autunnale e al sentiero che mi ha fatto ritrovare un luogo della memoria, perso nella leggenda, dove ho forse trovato l’essenza più pura di me stessa. I colori delle profondità boschive erano meravigliosi, gli alberi si vestivano di gialli e rossi intensi, la luce di cipria li avvolgeva in un alone di sconfinata magia e la macchina fotografica immortalava ogni scorcio, ogni possibile prospettiva.
Di ritorno, lungo il sentiero, ho affrontato con innaturale stanchezza una salita; mi sono fermata un attimo ad osservare le grandi mura di spessa arenaria che sorreggono i terrazzamenti e sfidano il tempo, i secoli e la potenza della natura che tutto inghiotte. Ed ecco, celata dai lunghi rovi, una nicchia nel muro. Non una nicchia qualsiasi ma un piccolo ed elegante vano che doveva ospitare qualcosa di prezioso, come un’immagine sacra. “Dove mi trovo?”, ho sussurrato a me stessa, “cos’è questo posto?”.
Guardando in alto, appena oltre il muro, delle foglie ingiallite di iris si poggiavano sulla roccia e contendevano lo spazio agli alti pini, come dei fieri Davide contro tanti giganteschi Golia. Ero appena sotto San Bartolomeo, un toponimo perduto nel bosco che un tempo era una chiesa e ospitava anche il cimitero di Stridone. Di questa chiesa sapevo non rimaneva niente, soltanto qualche racconto di mia madre che mi parlava di antiche processioni notturne per i defunti, per Natale e per Pasqua, quando si accendevano i ceri e moltitudini di fedeli percorrevano oscuri percorsi che circondavano il luogo. San Bartolomeo, la sagra di Stridone l’ultima domenica di agosto, quando si tenevano le comunioni e le cresime e la sera si ballava alla festa paesana. Soltanto questo era rimasto del santo martire, la sagra e la leggenda della chiesa inghiottita dal bosco. Lessi da qualche parte di una storia che parlava di un tesoro inestimabile sepolto sotto le fondamenta e mai più ritrovato; poi una fiaba macabra, raccontata ai bambini accanto ai focolari, parlava di un viandante che una notte vide una processione a San Bartolomeo. Si unì alle tante persone che vi partecipavano, assistette al rito e prese una candela, datagli da un fedele. Quando giunse a Stridone, come sospinto da un sogno, si rese conto che quella chiesa non esisteva più da tanto tempo e che nulla di ciò che aveva visto era reale. Allora si ricordò della candela che aveva riposto nella tasca del cappotto e, con sommo orrore, vide che era il dito di un morto. Lo gettò via con ribrezzo e questo scomparve nel nulla come per un incantesimo. Storie e leggende che hanno attinenza col passato, con le antiche reminiscenze pagane che si confondono alla credulità popolare.
Tanti sono i piccoli sentieri, oramai impervi, che portano al colle di San Bartolomeo; io ho scelto quello più praticato che usava barba (zio) Mario per coltivare i suoi campi. Una ripida salita, pini ovunque, rovi e tronchi caduti, rovine di mura gigantesche rotolate per terra. Sembrava non ci fosse davvero nulla, tutto oramai imprigionato dalla natura e mai più restituito. Invece, all’improvviso, mi si è aperto un minuscolo mondo conservato e celato gelosamente dal bosco, invaso dalla vegetazione ma ancora integro nella monumentalità delle sue mura di arenaria, dritte e perfette in molti punti. L’ingresso a quella che doveva essere la chiesa, con annesso il cimitero dove riposano senza lapidi e senza nomi gli antichi abitanti di Stridone, è ancora visibile anche se il luogo di culto non esiste più. Un semplice ingresso ad un cortile e la planimetria ancora riconoscibile di quella che era una piccola chiesa dedicata ad un santo che proteggeva dalla peste e dal suo nero alito di morte.
I cimiteri si facevano fuori dai borghi nelle spaventose ondate di peste nera e peste bubbonica, perché si intuiva la pericolosità dei mali contagiosi che seminavano lutti ovunque. Quando questo luogo fu abbandonato, per un qualche motivo ignoto, il cimitero si fece in paese, tra la chiesa di S. Giorgio e quella scomparsa di S. Girolamo (ricostruita successivamente appena fuori dall’abitato), dove si trova il grande campanile ottocentesco. Poi però, nell’’800, si affacciò il colera che sparse il maleficio del contagio e il governo austriaco impose di trasferire nuovamente il cimitero fuori dal borgo (dove si trova tuttora, accanto alla chiesa di S. Girolamo). Di San Bartolomeo non rimase più niente, diventò terra da coltivare in mezzo alle possenti mura di cinta che fanno pensare ad un fortilizio, ad una complessa fortificazione costruita per difendersi dalle violenze dei predoni. Non mancavano le incursioni a Stridone, dato che il paese era privo di mura da molti secoli. Gli uscocchi, a inizio ‘600, misero l’Istria a ferro e fuoco in quella che fu la battaglia di Gradisca, dove si confrontarono spietatamente i veneziani e gli austriaci. Il borgo era terra della Serenissima e i “signori di ventura” bruciarono tutto e saccheggiarono anche la chiesa.
Voglio pensare che almeno una parte degli abitanti sia riuscita a trovare rifugio a San Bartolomeo, sicuramente difficile da espugnare, e che abbiano magari sepolto tra le sue mura i pochi averi e i tesori della chiesa, per sottrarli ai predoni. Di certo barba Mario non li ha mai trovati, poiché era anche accanto al suo fogoler che si raccontava delle processioni notturne e dei tesori mai ritrovati di San Bartolomeo, la chiesa nel bosco che non esiste più.