I giorni di aprile
Nel sole lucente e gradevole di questo inizio di aprile, a pochi giorni dalla Pasqua, mi è venuto in mente il poema di Thomas Stearns Eliot The waste land (La terra desolata). Una celebre opera di uno dei poeti più influenti del Novecento. Il poema fu composto in oltre un anno di scrittura caotica, come la definiscono gli studiosi, e concluso nella casa di cura di Losanna dove fu ricoverato in seguito ad un grave esaurimento nervoso. Ezra Pound, suo amico, rivide l’opera e la dimezzò per renderla pubblicabile e fruibile al grande pubblico. L’opera inizia così: “April is the cruellest month, breeding lilacs out of the dead land, mixing memory and desire, stirring dull roots with spring rain. Aprile è il più crudele di tutti i mesi, genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera”.
Eliot non ci parla di una primavera gioiosa, di un allegro risveglio della natura né di una stagione che si riscalda e ci rende euforici: è un aprile crudele il suo, strappa l’uomo dal letargo invernale mostrandogli senza remore o censure l’infinito ciclo di morte e rinascita. L’uomo del poeta non si vuole svegliare, non vuole assistere allo spettacolo dell’eterno divenire, ed è per questo che abita la terra desolata: è l’uomo moderno che vive in Europa tra Ottocento e Novecento, perso nel caos delle guerre, arido e perverso schiavo dell’avidità. Una Babele di lingue, un ginepraio di esseri umani dove, di tanto in tanto, compaiono simboli religiosi e profetici che sembrano indicare al lettore un’altra strada possibile, diversa.
Lungo lo svolgimento del poema Eliot rievoca costantemente la primavera, tra riti di fertilità e la squallida malinconia della vita nelle metropoli europee. Il mito del Graal, i tarocchi, le profezie, tutto gira attorno ad un solo concetto: l’eterno ciclo di morte e vita di cui è schiavo il mondo. Così aprile da dolce diventa crudele, quando la vita si impone rigogliosa sulla morte e mescola il passato (la memoria) col presente (il desiderio). Ed è in questo momento particolare che l’abitante della terra desolata scopre la sua aridità interiore, si scontra con la potenza della primavera che costringe la sua coscienza a risvegliarsi, a comprendere la sterilità della sua condizione e infine, la transitorietà della sua presenza.
Leggo sulla vecchia antologia di letteratura anglosassone che il messaggio di Eliot è ancora attuale, racconta lo stato generale dell’uomo d’oggi e il suo rapporto con la modernità. Non la penso così, credo che la condizione attuale dell’uomo occidentale sia andata ben oltre, oltre l’idea di infruttuosa aridità che aveva Eliot. Tra gli abitanti della terra arida pochi sono coloro a cui la primavera riesce a risvegliare la coscienza, mettendoli di fronte all’infruttuosità dell’anima. Vivere il presente, ci dicono, vivere l’ora e l’adesso come se il domani non ci fosse e l’ieri fosse cancellato; una condizione di infantilismo progressivo, di soddisfazione dei bisogni primari, di desideri che non devono restare insoddisfatti. Mettere se stessi al primo posto e dimenticare gli altri, oppure annullare se stessi per compiacere gli altri: le due facce della stessa medaglia che rende l’uomo sempre schiavo di qualcosa. Chi vive il presente e non ha memoria del passato conosce solo la soddisfazione del desiderio, la spasmodica ricerca del suo piacere, che sia egoistico o dipendente da qualcun altro, poco importa: sente l’impellente bisogno di cancellare dalla vita l’idea stessa della morte; vede la primavera soltanto da un punto di vista, quello della rinascita, e nella sua infinita superficialità, dimentica che questa rinascita è strettamente correlata alla morte.
Se la pandemia mi ha insegnato qualcosa, questa è vedere il mondo desolato per quello che è, sgombro una volta per tutte dalla visione che ho coltivato per tutta la vita e che tendeva a idealizzarlo: un mondo, sì, imperfetto, però di gran lunga il migliore in cui vivere. Quando sento le persone dire che ringraziano di essere nate a queste latitudini e non in posti infelici, pieni di miseria, conflitti e ingiustizie, penso che in un tempo molto vicino, ero una di loro. Da tre anni a questa parte la mia visione è cambiata del tutto, come se un’eterna primavera che tenevo lontano dalla coscienza avesse fatto breccia, trasformandomi. Non sono felice di vivere nel mondo arido che ha calpestato leggi e regole per imporre l’autoritarismo, obbligando le persone a sottoporsi a trattamenti sanitari per poter lavorare, terrorizzando giorno e notte con i bollettini dei morti, con immagini macabre. Ricordo una serata, in piazza Goldoni a Trieste. Dovevo andare a teatro e mi sono fermata a prendere un caffè in un bar; eravamo tutti con le mascherine, ovunque, anche all’esterno. Sono uscita, l’aria era insolitamente tiepida per il mese di febbraio. Davanti a me una scena da documentario sull’URSS: tre poliziotti armati stavano fermando, circondandolo, un pover’uomo della mia età. “Ci faccia vedere il suo green pass”, dissero. L’uomo, balbettante e intimorito, tirò fuori il documento senza proferir parola. Era d’obbligo, per gli over cinquanta essere vaccinati, o si veniva multati. Assistevo alla scena surreale attonita, sbalordita. Allora ho incrociato lo sguardo di uno dei poliziotti, ci siamo fissati per un momento, poi lui si è voltato. Avrà scorto nei miei occhi un desiderio di violenza, di morte, di ghigliottina; forse anche la mancanza di timore, il poco valore che do alla mia vita terrena, fatto che mi avrebbe portata a sputargli in faccia anche se avesse estratto l’arma. Mentre andavo a teatro mi chiedevo perché le persone fossero disposte ad accettare tutto ciò, a non ribellarsi, a non svegliarsi, anzi, a denunciarsi gli uni con gli altri. Poi, a teatro, una persona che non vedevo da tempo mi ha rifiutato la stretta di mano dicendo: “Non si deve! È contro le regole”. Allora ho capito, tutto è stato chiaro. Vivere l’ora, l’adesso, il presente, l’infantilismo più spinto non è altro che una fallace promessa d’immortalità, la fede nella scienza che sconfigge la morte e consente all’essere di soddisfare i suoi bisogni egocentrici fino alla fine dei tempi.
Per me che considero la morte parte integrante della vita, il flusso autoritario in cui le persone si identificavano e credevano mi ha spinto a chiudere i rapporti con decine di persone e tenermi del tutto fuori dalla bolgia di follia imperante. Il mondo arido e i suoi abitanti, però, non avevano ancora finito di stupirmi. Appena tolte le restrizioni, appena tolti gli obblighi, tutti si sono dimenticati gli anni appena trascorsi e le regole folli che hanno seguito supinamente. L’ora, l’adesso, il momento presente e la soddisfazione dei bisogni primari (mangiare, bere, divertirsi) non consentono che si pensi al passato, anche se è stato solo ieri. In cabina elettorale, lo scorso fine settimana, avevo il desiderio di strappare la scheda di chi mi chiedeva il voto dopo aver calpestato i miei diritti e la mia dignità, però mi sono fermata e ho sorriso: poveri, patetici esseri, attratti dagli scranni e dal desiderio di schiacciare, andatevi a vedere La danza macabra a Hrastovlje, chissà che non vi insegni qualcosa.
La primavera della rinascita, presagio di morte, non l’ho mai sentita come quest’anno. Avrò cinquant’anni ad agosto e non ci sto arrivando in una splendida forma. Il dolore mi attanaglia, rende le mie giornate difficili e non accenna a passare. La sopravalutata scienza non mi dà risposte, scrolla le spalle e mi lascia combattere da sola; tutti siamo combattenti soli, pieni di ferite, di mutilazioni e desinati a morire. Forse l’unica cosa che mi distingue da tanti altri è che non vivo l’ora e il presente ma tutta la circolarità della mia vita, incluso l’imperscrutabile divenire. Sono conscia del passato che determina il presente e consapevole del futuro che mi riserverà la morte: non c’è nulla di macabro in tutto ciò, questa è semplicemente la vita che in questi giorni sboccia, poi fiorirà e frutterà, e in inverno tornerà a morire.