Il lungo cammino delle donne
Nei giorni passati ho visto il film Il concorso (Misbehaviour), lungometraggio del 2020 diretto dalla britannica Philippa Lowthorpe e interpretato da Keira Knightley. Il film racconta la storia di un gruppo di femministe che nel 1970 hanno interrotto il concorso di Miss Mondo alla Royal Albert Hall di Londra, denunciando la rappresentazione maschilista della figura femminile nei concorsi di bellezza. Avevo letto molto di questo film la cui distribuzione è stata resa complicata dalla pandemia e poi non abbastanza sottolineato il grande tema – o meglio i temi – che l’opera tratta. Non è solamente la nascita e lo sviluppo del Women’s liberation movement che negli anni successivi porterà a gigantesche manifestazioni di piazza, segna anche un cambiamento epocale nelle percezione della donna a tutti i livelli e, non da ultimo, la prima incoronazione di reginetta di bellezza di una ragazza nera – Jennifer Hosten, dell’isola caraibica di Grenada – in un concorso che aveva qualcosa come cento milioni di telespettatori nel mondo. Un film molto inglese, pieno di umorismo e di bravissimi attori, con una regia a tratti brillante per le inquadrature che raccontano più delle parole. Chi appartiene alla mia generazione, le nate negli anni ’70, dà per scontato godere di conquiste e libertà che non erano affatto tali per le donne che ci hanno messe al mondo. Ed è precisamente di queste donne che racconta il film, della generazione degli anni ’40 che è cresciuta nel dopoguerra e le cose le ha dovute cambiare, giorno per giorno, sapendo che ne avremmo forse beneficiato noi anni dopo. Le storie sono quelle di Sally Alexander (e compagne), una studentessa divorziata con una figlia, un nuovo compagno, una mamma tradizionalista e il desiderio di laurearsi in lettere; giovane tenace, vuole sindacalizzare le donne delle pulizie all’università e trova poco serie le ragazze dei gruppi femministi che imbrattano le pareti: alla fine diventerà la loro leader e artefice del blitz al concorso. Poi ci sono le ragazze di Miss Mondo, bellezze procaci e rassicuranti, vengono da ogni paese con i loro sogni e accettano regole che oggi fanno rabbrividire: davanti alla giuria si devono girare e mostrare il didietro restando ferme, in modo che il culo si veda bene in mondovisione. Vengono prese le misure e palpati i seni per accertarsi che non ci siano imbottiture. Per loro è un trampolino di lancio, la possibilità di una carriera nella moda o nel cinema, passando, tuttavia, per una strada molto stretta e pericolosa che schiaccia la personalità e le ambizioni.
Ammetto che mi ha parecchio turbata questa regola del concorso, perché non l’avevo mai vista, dato che le varie Miss Italia di mia memoria non funzionavano in questo modo. Eppure, all’epoca era normale chiedere a delle donne in costume da bagno di voltarsi, tirare fuori il didietro, e restare lì a farsi esaminare, mentre la telecamera indugiava sui deretani. Non si trattava della sagra paesana della banana, pecoreccia e becera, ma di un concorso trasmesso in mondovisione che vedevano le famiglie, e attraverso il quale le bambine inevitabilmente si facevano un’idea della realtà.
Le squallide battute di Bob Hope, i costumi stereotipati dei vari paesi, gli spazi pubblicitari con prodotti diretti alle donne (pulizie, cibo e cura di sé) fecero impazzire le donne del movimento che iniziarono a lanciare bombe di farina, pomodori e fiale puzzolenti. Lo spettacolo nello spettacolo, Hope scappato dal palcoscenico, le donne fermate e portate via in manette. Poco dopo Miss Mondo diventa la bella ragazza di Grenada che desidera fare televisione ma che, invece, si laureerà e avrà una carriera diplomatica. In un gioco di specchi le attrici si riflettono nei personaggi veri, nei loro volti segnati dal tempo e dalle battaglie, dando una sintesi dei decenni trascorsi e delle conquiste ottenute.
Per me è stato inevitabile fare una riflessione storica e di costume, usando i tanti spunti (forse troppi) che il film fornisce. La situazione della donna intellettuale negli anni ’70 viene sintetizzata bene dalla protagonista, la colta studentessa che si sente parlare sopra dai colleghi maschi, non riesce a terminare una frase e quando propone la tesi sull’evoluzione delle donne lavoratrici in Gran Bretagna, il professore risponde: “Il suo è un tema troppo di nicchia”. In pratica era di “nicchia” parlare del 50 per cento della popolazione umana. La madre della giovane, sempre elegante nei suoi completini borghesi, le dice: “Pensi davvero che puoi avere le stesse libertà di un uomo? Non puoi…”. E invece lei può, noi possiamo, ma non è stato indolore arrivarci.
Il germe del cambiamento e della consapevolezza aveva raggiunto anche me negli anni ’80, quando vivevo in una bolla temporale di arretratezza culturale e patriarcato anacronistico. Ero una ragazzina ma sapevo che il malato tradizionalismo della cultura istriana stava finendo e che quelle donne sottomesse, ubbidienti ai padri e ai mariti, appartenevano ad un mondo che non poteva sopravvivere alla modernità. C’era Margaret Thatcher in Inghilterra, una donna inaspettata e durissima, la Lady di Ferro (molto diversa da Lady Diana con lo sguardo triste) in cui identificarmi. Purtroppo le donne dei movimenti fecero un grave errore allora: legarono la protesta ad una precisa parte politica che le ha usate a scopi elettorali, lasciando ai partiti tradizionalisti l’opportunità di elevare la donna a leader e simbolo. Golda Meyer, la Thatcher, Angela Merkel, fino a Giorgia Meloni, sono le risposte delle donne fuori dai movimenti che hanno fatto la scalata al potere. Legarsi alla sinistra e solo alla sinistra ha snaturato il femminismo, lo ha reso una costola dei partiti che eleggono sempre uomini e che inseguono i conservatori quando oramai la frittata è fatta. Di più, il movimento viene schiacciato dalle nuove lotte per i diritti civili che bollano le femministe come “omofobe” e spingono ad accettare pratiche barbare quali l’utero in affitto.
La situazione femminile non è ancora paritetica a quella maschile perché vi sono storture nel sistema, annosi nodi difficili da sciogliere e una naturale ritrosia dell’uomo a mollare il trono. Di fatto, però, ci siamo prese i nostri spazi e progettiamo il futuro senza chiedere il permesso a nessuno. Non siamo solidali tra di noi, non c’è alcuna sorellanza, perché siamo solo esseri umani e quelle erano utopie; le bambine di oggi hanno ancora modelli ingannevoli veicolati da internet, però hanno madri che non devono chiedere al marito di firmare per un passaporto o per avere un conto in banca: indietro, su questo, non si torna più.
Il lungo cammino delle donne non è finito e guardare alla nostre madri è un utile esercizio per capire l’entità del contributo che possiamo dare ora, senza delegare a nessuno.