Irlanda, l’isola dei Celti
(Foto Ivan Caliri)
Sono trascorsi molti anni da quando l’Irlanda ha vissuto il suo orgoglioso “risorgimento” che l’ha portata all’indipendenza dall’Inghilterra e, col tempo, al superamento del “complesso del perseguitato” che ha caratterizzato il paese per tanto tempo. La dura lotta contro il “tiranno” inglese, per l’identità nazionale, culturale (gaelica) e religiosa (cattolica), di fronte ai tentativi di assimilazione, sia politici che dipendenti dalla delimitazione geografica, l’ha condotta all’esclusivismo. Il problema dell’Ulster, le rivolte di Belfast, il terrorismo non hanno consentito di dimenticare le asprezze del passato, anche se molte relazioni sono sopravvissute per ragioni di contiguità geografica, interessi economici e commerciali. Un tempo paese arretrato e impoverito dalle massicce emigrazioni, isolato anche psicologicamente, oggi si apre al resto della UE e del mondo come luogo di affari e di turismo famoso a livello internazionale.
La Repubblica d’Irlanda occupa 26 delle 32 contee storiche che compongono l’isola, essendo le restanti (parte nord-orientale) soggette al Regno Unito, ovvero l’Irlanda del Nord o Ulster (il nome di una delle contee). La costituzione repubblicana e parlamentare del 1922, successiva all’indipendenza dall’Inghilterra, si conforma ai sentimenti irlandesi col preciso obiettivo di distinguersi dal mondo britannico. La questione religiosa rappresenta di certo il grande punto di rottura col Regno Unito, con la fede cattolica che definisce l’unicità del popolo irlandese e la distinzione con i vicini protestanti. Però sono soprattutto i profili antichi del suo territorio a rendere unica questa affascinante terra.
Più compatta e unitaria rispetto alla Gran Bretagna, rigida nella struttura, solo marginalmente toccata dall’erosione delle glaciazioni. I rilievi hanno forme attenuate e morbide, con una parte centrale di bassopiano circondata da monti non elevati e antichissimi. Il profilo costiero riflette l’origine geologica ma anche l’erosione fluviale e glaciale, l’influenza del mare che ha dato origine ai fiordi (Carlingford Lough, Killary fjord e rías come Cork; i rías sono insenature di litorali rocciosi, valli fluviali invase da acqua di mare e presentano un aspetto molto frastagliato). I fiumi, con gli allineamenti montuosi e l’enorme bassopiano centrale, hanno un corso assai difficile. Scorrono lenti, ricchi di acqua, alimentati dalle continue piogge. Così il Shannon, il più grande dei fiumi, attraversa da nord a sud il bassopiano, scorre lento e placido attraverso la campagna irlandese. Umidi e violenti sono invece i venti occidentali che caratterizzano il clima, di tipo oceanico, in massima parte mite e piovoso, ma decisamente più umido di quello inglese: tanti sono i giorni di pioggia e l’insolazione è minore. Si calcolano circa 225 giorni piovosi all’anno, con un’umidità minima del 70 percento e la massima dell’80 percento a gennaio. La caratteristica nebulosità ha effetti negativi sull’agricoltura, però conferisce al cielo d’Irlanda il suo leggendario fascino.
La storia della popolazione di queste terre si perde nel mito, dal momento in cui i Celti sbarcarono sull’isola, nel primo millennio a.C., dalla Gran Bretagna. Essi fondarono sedi stabili, villaggi di legno cinti da terrapieni o su palafitte, coltivarono i campi, esercitarono la pesca lungo i fiumi che percorrevano con i curach, agili imbarcazioni di pelli.
Attratti dalle ricchezze dei monasteri irlandesi, i Vichinghi nel IX secolo vennero più volte nell’isola per depredare; tuttavia, fu proprio dalle loro basi riparate che si sarebbero sviluppate quasi tutte le principali città: Dublino, Cork, Waterford, Wexford e Limerick.
Con l’invasione degli Anglo-Normanni nel XII secolo ebbe inizio l’assoggettamento politico ed economico alla Gran Bretagna che si protrasse per secoli e conobbe le fasi più acute nell’età dei Tudor e degli Stuart; la maggior parte delle terre irlandesi furono confiscate ai proprietari e assegnate a poche centinaia di signori inglesi (i land lords), che le affittavano ai contadini irlandesi e favorivano l’immigrazione di inglesi e scozzesi, specialmente nell’Ulster. La popolazione aumentava e mutava l’ambiente: si espandeva l’agricoltura a discapito delle foreste, sempre meno estese, e sorgevano in più punti città, centri di scambi commerciali. Nel XVIII secolo gli abitanti erano 4 milioni e quasi 8 milioni e mezzo prima della grande carestia (1845-1847). La crisi economica, già in atto, portò ad un collasso anche dell’agricoltura e si calcola che 700 mila persone morirono di fame e molti scelsero l’esodo verso la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. La popolazione crollò e ci vollero molti decenni per creare un equilibrio tra le aree dell’ovest semi disabitate e la fascia orientale più vivibile e industrializzata.
L’Irlanda fu terra di colonizzazione da sempre, fin dal Neolitico quando l’uomo preistorico introdusse la coltivazione dei cereali, l’allevamento degli animali ed eresse monumenti megalitici, visibili a noi come cerchi di pietre, tumuli e dolmen.
I Celti fondarono insediamenti rurali di cui permangono i raths, spazi circolari delimitati da muretti e diedero all’Irlanda quell’aspetto affascinante successivamente legato alle fattorie, al centro di vasti poderi, con ettari coltivati a strisce regolari. Poi l’urbanizzazione ha portato a città sempre più grandi, con porti ben attrezzati.
La capitale Dublino è sorta sulla foce del Liffey nel Mare d’Irlanda. I Vichinghi la scelsero per la sua felice posizione in una baia ben riparata e svilupparono il primitivo insediamento celtico, trasformandolo ben presto nella loro principale base per le incursioni. Dopo l’assoggettamento al regno britannico, nel XVI secolo, i Tudor partivano alla nuova conquista dell’isola dalla testa di ponte rappresentata da Dublino (The Pale) in loro possesso. Attualmente Dublino è una grande città, con una struttura urbana caratteristica; con le vie principali disposte in cerchi concentrici attraversati dal fiume e un aspetto moderno e monumentale, conferitole dall’ampiezza delle vie e delle piazze, dallo stile neoclassico degli edifici principali e dalla vastità dei parchi. La vita politica, culturale ed economica trova in questa capitale un’armoniosa sintesi, laddove convergono le principali vie di comunicazione stradale, ferroviaria e aeroportuale.
Verso meridione Cork, dalla foce del fiume Lee e nella profonda insenatura di Cork Harbour, è un attivo porto e città turistica. Un primo nucleo abitato si era venuto a formare nella vasta isola fluviale, che rappresenta tuttora il cuore della città, intorno al monastero del VII secolo; tuttavia, furono i Vichinghi a determinare la rapida espansione dell’abitato su entrambe le sponde del fiume. Per la sua buona posizione protetta e sulla via frequentata dal traffico marittimo, si è sviluppata come centro commerciale e industriale: con l’avamposto di Queenstown (Cóbh), entro il Cork Harbour, è con Dublino lo scalo passeggeri più frequentato d’Irlanda.
Limerick si trova sulla sponda sinistra del fiume Shannon, all’inizio del suo lungo e tortuoso estuario. Il primitivo nucleo della città sorse su un’isoletta fluviale che i Vichinghi nell’VIII secolo scelsero come base militare e cinsero di mura. Nel corso del XII secolo la città fu conquistata dagli Anglo-Normanni ed ebbe una parte importante negli avvenimenti storici dell’isola durante le lotte contro gli Inglesi. Limerick è costituita da tre nuclei abitativi ben definiti: l’isola fluviale di King’s Island (compreso l’antico porto fortificato); l’Irishtown e il Newtown Pery, il quartiere moderno.
Una piccola nazione ricca di cultura, storia, arte e bellezza, narrata con elegante poesia dalla grande letteratura monastica (satira, panegirici, liriche brevi) e dalla rinascita della cultura gaelica che risuscitò le opere del passato adattandole al lettore moderno. L’arte di questo popolo parte dalla notte dei tempi con i megaliti; successivamente con la lavorazione dei metalli (le bellissime lunule d’oro a forma di luna crescente), preziosi oggetti di lusso, oggetti religiosi e quelle meravigliose distese di croci celtiche scolpite che sembrano ripetere i motivi pagani dei monumenti megalitici.
Nei scriptoria dei conventi fiorivano i codici manoscritti (un fantastico gioco di ghirigori, di linee astratte sempre diverse), mentre l’invasione anglo-normanna introdusse l’arte romanica nella costruzione delle chiese. Poi arriva il gotico dei cistercensi d’Irlanda con il capolavoro della Christ Church di Dublino. L’arte gotica si ammira nelle abbazie del XIII secolo e più tardi che altrove arriva il Rinascimento: lo si apprezza soprattutto nella decorazione di interni e negli oggetti (ad esempio stucchi e decori nel castello Ormonde del XVI secolo).
La storia dell’architettura di Dublino ci parla della rinascita del XVII e XVIII secolo, con gli edifici più caratteristici della capitale. Perduto l’influsso classicheggiante agli inizi del XIX secolo, Dublino mostra degli edifici più eclettici, fino alle costruzioni moderne (come il terminal di Desmond Fitzgerald) che proietta la città in una nuova era.
Lo spirito irlandese si riconosce già a partire dal Seicento, in una particolare espressione drammatica: il teatro. Autori immortali come Oscar Wilde e George Bernard Shaw hanno caratterizzato la cultura irlandese e hanno esportato nel mondo lo spirito ironico di questo popolo.
Nel poeta William Butler Yeats troviamo tutta la potenza della rinascenza celtica che in La contessa Cathleen (1892) e Deirdre (1907) offre due testi tra i più intensi di tutto il teatro di poesia in lingua inglese.
La musica irlandese meriterebbe un capitolo a parte, specialmente le folk songs, amate dagli irlandesi e dai cultori di tutto il mondo.
In questa terra battuta dalle onde boreali, oltraggiata da mille invasori, baluardo di cristianità, il paradosso assume un ruolo centrale. Qui nacque Jonathan Swift che nei suoi Viaggi di Gulliver satireggiò i costumi dell’epoca con raffinata ferocia; Berkeley insinuò nell’umanità che la realtà non esista e che tutto si riduca a delle percezioni; Wilde e Bernard Shaw si sono incaricati di demolire pietra su pietra i miti britannici della moralità vittoriana, i fasti, il senso comune, l’ipocrisia mostrata come strumento di convivenza sociale; poi James Joyce distrugge anche la parlata quotidiana, con un linguaggio che si frantuma, prolifera in nuove direzioni, proietta verso l’avvenire; Samuel Beckett sconvolge le platee occidentali raccontando storie senza senso di due straccioni che attendono qualcuno che non verrà (Aspettando Godot) e inventando il teatro dell’assurdo.
Questo affascinante popolo che ama i paradossi, il teatro, la tradizione, presenta anche un certo numero di caratteri fisici propri: alti e massicci, faccia ampia, mento prominente, pelle chiara e spesso lentigginosa, splendidi occhi chiari.
Ho raccontato in uno dei miei articoli precedenti (Samhain, le vere origini di Halloween – 29 ottobre 2021) la tradizione celtica di questo popolo, ancora insita nella cultura, nella sensibilità e nelle tradizioni: qui si inserisce in modo creativo il cristianesimo e penetra profondamente nello spirito nazionale. Un esempio del passato che si inserisce nel presente è l’uso del gaelico, l’antica lingua dei Celti che in alcune zone non è mai del tutto scomparso.
Nella continua lotta per cacciare l’invasore britannico e mantenere una certa purezza della coscienza nazionale, l’intellighenzia locale si è avvalsa dello strumento linguistico: il gaelico. Era l’antica lingua dei Celti e in certe zone, come le isole Aran, è sopravvissuta a lungo. Le nuove generazioni del secolo scorso, però, hanno scelto l’inglese quale lingua esclusiva e dimenticato progressivamente l’antico idioma. Nella prima metà dell’800 il gaelico era parlato in quasi tutto il paese, fino alla grande emigrazione provocata dalla carestia che fece precipitare la percentuale ad appena il 20 percento della popolazione. Sia il governo di allora che il mondo della cultura reagì a questo stato di cose promuovendo una rinascita della lingua madre. A fine ‘800 fu fondata la lega gaelica per la diffusione della lingua, nacquero società letterarie, furono stampati giornali e la costituzione dell’Eire riconobbe il gaelico come lingua ufficiale rendendone obbligatoria la conoscenza nelle università.
Un tentativo ardito e orgoglioso che, tuttavia, era destinato a fallire. Oggi il gaelico è una lingua colta, adatta agli studiosi e ai letterati, troppo lontana dalla realtà scientifica del nostro tempo, dalla tecnica che definisce le nostre vite, priva di sostantivi astratti, valida a esprimere mirabilmente il vecchio mondo delle leggende ma incapace di tradurre, ad esempio, un libro di filosofia. La decadenza del gaelico inizia proprio alla fine dell’800 quando è più viva la coscienza nazionale e la lotta per l’indipendenza. L’eterna contraddizione irlandese: un animo dilaniato e incapace di essere pienamente se stesso.
Così il paese delle tempeste, delle leggende, delle grandi nuvole, dei venti tumultuosi, delle rocce affioranti dal mare e delle crude scogliere, rimanda il visitatore a una dimensione romantica smarrita nel tempo; una dimensione che solo nel nord è possibile e viva e trasporta la mente in tempi passati dove si rivive la storia.