Il solstizio dell’uomo
Un tramonto infuocato, poco prima di Natale, mi ha fatto pensare al controverso filosofo russo Dugin e al suo saggio “Il sole di mezzanotte. Aurora del soggetto radicale”. Un’opera che, per certi versi, ricorda Eliot ne “La terra desolata”. Un libriccino breve, denso di pensieri di fuoco, scritto da un uomo a cui è stata uccisa la figlia, improvvisamente, in una violenta esplosione destinata a lui. Un autore che mio fratello apprezzava, seguiva e leggeva; ne parlavamo, lo commentavamo, ci speculavamo sopra, come ci ha insegnato nostro padre che seguiva la politica estera e gli scontri ideologici dalla sua vecchia radio in Istria. Da questa visione ho formulato il seguente pensiero:
“Nella vita di ogni uomo c’è il solstizio d’inverno, il momento più buio, quando la tenebra oscura la via e l’esistenza perde di significato; il sole, però, rinasce proprio allora, mentre la notte è lunga e priva di luce. Illumina il cielo, lo tinge di rosso, lo stria col sangue cosmico, e un nuovo inizio, lì da qualche parte, si profila all’orizzonte.”
Non vedo ancora il sole, quel Sol Invictus degli antichi romani, il sole del dio Mitra, di Helios, di Apollo e poi il sole cristiano, la nascita del Signore, nel momento più buio della terra. In me predomina la tenebra, nel momento più doloroso della vita. Mentre il corpo di mio fratello si sta disfacendo nel buio della tomba, il mio dolore germoglia alimentato dal nutrimento della disperazione, della fede che vacilla e sotto il peso di un’esistenza che vorrei troncare. L’adulto, però, non può fare solo ciò che vorrebbe, nemmeno in questa putrida società di “bambini” che soddisfano ogni bisogno, specie a scapito degli altri. Ci sono due bambini veri nella mia famiglia, i miei nipoti, che devono crescere senza il padre, affrontare la vita senza una figura così importante; poi, mia madre, anziana e stanca, con alle spalle un passato difficile (orfana di padre anche lei), vissuta nella miseria e nella dittatura, lottatrice instancabile che ora, negli ultimi sprazzi dell’esistenza, è costretta a sopravvivere alla sua creatura.
La tremenda tragedia che vivo, arrivata come un violento fulmine, senza avvisaglie, mi fa pensare alla vacuità di questa esistenza terrena: non la capisco, la detesto, mi provoca la nausea, un desiderio di morte senza limiti e nessuna paura. No, io non ho più paura, non temo le malattie e nemmeno il dolore, non temo più il giudizio di Dio, figuriamoci quello degli uomini; soprattutto non temo quella che San Francesco chiamava “sorella morte”. Forse il mio vero solstizio è questo, trovare un rapporto di amore con la morte, quasi un ossimoro, e invece per me un inno alla libertà e alla salvezza. Il paradosso è proprio questo, nel momento in cui le mie cellule vorrebbero morire, l’idea stessa della morte alimenta la vita, mi spinge a scrivere come un’ossessa, a vagare verso confini narrativi inesplorati, lanciarmi in progetti che non so definire ma che nascono spontanei, tanto che non li so collocare nel tempo.
I miei detrattori ci rimarranno male, magari speravano che questo colpo mi uccidesse; tranquilli, sì, mi ha uccisa, ma non come speravate voi, anzi. Non ho mai capito perché tante persone mi odiano e provano a danneggiarmi, a bloccarmi: boicottaggi dei libri, schifezze scritte sul web, pugnalate alle spalle, tentativi di sminuirmi, di umiliarmi e molto, molto altro. Eppure, non ho mai disturbato nessuno, non ho mai sgomitato, non ho mai fatto i salti mortali per una presentazione o un’intervista (di cui non mi è mai fregato niente, figuriamoci ora), non ho mai fatto ciò che è stato fatto a me e in questo, lo ammetto, sono cristiana, lo sono profondamente. Forse in futuro non sarà così e qualche denuncia potrebbe pure arrivare, dato che chinare sempre il capo provoca problemi alla cervicale, però non perdo tempo a detestare il poveraccio di turno che si rode a causa mia. Può darsi che una vita come la mia, decisamente poco voluta, trovi il suo scopo nella creazione di qualcosa e nella vita di altre persone. Mio fratello, invece, la vita l’amava molto, nonostante non sia stato fortunato e abbia sofferto intensamente.
Prima di lasciare questo mondo ha avuto paura per i suoi figli, ha chiesto ai medici di aiutarlo a crescere i bambini, invece è andato via: ha percorso quel tunnel che lo ha portato verso la luce eterna, e che spero un giorno – il meno lontano possibile – percorrerò anch’io e lo incontrerò di nuovo. Intanto sono qui, nella gabbia della sofferenza corporale, con l’impegno dei suoi figli, della nostra anziana madre e degli altri membri della famiglia, cercando di unire e non disgregare, di seguire e non abbandonare, di trovare un senso invece di annichilire.
Sarà un anno insignificante per me questo 2024, non proverò niente e non sentirò niente per il mondo; mi lascerò attraversare dal dolore, gli lascerò devastarmi, per poi far germogliare i semi della creatività che non ho piantato io: li ho soltanto ereditati.
A voi, però, auguro di trovare la luce dopo il solstizio, di farvi illuminare la via e di amare profondamente, in ogni singolo istante, le persone che vi stanno a cuore e danno un senso alla vostra vita.