Sorelle spaiate
Non sono solita recensire libri sul mio blog, come sanno bene i miei lettori. I libri che leggo sono spesso più importanti di quelli che scrivo, soprattutto per l’impatto – positivo o negativo – che hanno sulle mie emozioni. Anche per questo non ne parlo, lascio che scavino dentro di me, che mi lascino delle suggestioni in grado di ispirarmi o farmi andare nella direzione opposta. Qualche volta, però, le regole si devono rompere. In questo caso lo faccio ben volentieri scrivendo dell’opera prima di una giornalista di successo, Lucia Esposito, caporedattrice della pagina culturale di “Libero”. Una mia coetanea, una donna con lo sguardo da bambina, un sorriso che porta il sole di Napoli nei grigiori milanesi e una grinta notevole da donna risoluta. No, non esagero, anzi. Conosco poco Lucia, l’ho vista soltanto due volte, un paio di mail scambiate, niente di più. Eppure, mi è piaciuta immediatamente; ho persino invidiato quel sorriso così aperto, così generoso, così distante dalle mie tristezze. Due donne della stessa generazione, io e lei, provenienti da mondi differenti che si ritrovano tra le pagine di un libro. Mi viene in mente la poetessa libanese May Ziadeh: “I libri sono l’unico posto al mondo in cui due sconosciuti si possono incontrare intimamente”. Ed è così, quasi sempre. La mia amica Elisabetta De Dominis, giornalista, ha presentato il romanzo a Grado, nel ciclo “Libri e autori” in spiaggia, con la presenza dell’autrice.
Il libro Sorelle spaiate (Giunti) è un romanzo molto particolare: crudo, brutale, spietato, delicato, pervaso da una sottile poesia impalpabile, affresco disincantato della nostra società. Ci sono molte suggestioni che colpiscono il lettore, non ultima una pervadente riflessione (non so se consapevole e voluta) della nostra generazione che chiamavano, con un certo disprezzo, generazione X. Anche noi pensavamo di cambiare il mondo, come tutti, ma partivamo da quello che sembrava un nuovo inizio: la fine dei sistemi ideologici novecenteschi. Ed è in questo contesto che si inserisce questa storia crudele, nei mondi devastati dall’implosione ideologica che ha lasciato deserti di etica, di morale, di rispetto per la vita umana, e dove germoglia soltanto l’ossessione per il denaro da ostentare. Ne so qualcosa, vengo da quei mondi. Ershela è una giovane albanese, proveniente da una famiglia spezzata, ama sua sorella Alina e un farabutto che la inganna esibendo la sua volgare ricchezza. Attraversa il mare, gonfia di felicità; pensa al matrimonio, ai figli, al benessere; ingenua, incantata, ventenne, sola. L’uomo che ama è un orco con due denti d’oro e glieli mostra nei suoi ghigni crudeli; la sbatte in strada, le dice che è sua schiava e deve guadagnare per non morire. La giovane diventa una di quelle ragazze disperate, mezze nude, abusate, disumanizzate che vediamo per strada e distogliamo lo sguardo per evitarle. Siamo nel 1998, l’era di internet e del deep web è solo agli albori, tutto si mostra per com’è, senza filtri tecnologici. In parallelo si sviluppa un’altra storia, quella di Viola Valenti, alter ego della Esposito, che nello stesso periodo lascia Napoli per fare la giornalista a Milano. La vita è difficile anche per lei, prima stagista sfruttata e poi collaboratrice di molti quotidiani, in cerca di affermazione; quando l’abisso della disperazione e dell’orrore la colpisce in un incontro con Ershela, la sua vita cambia fatalmente. La giovane giornalista non segue le regole del cronista d’assalto, di quello che caccia in faccia alle persone il microfono per registrare il dolore, la sofferenza; lei è diversa e non incline al consiglio del caporedattore napoletano che le dice “per stare sulla strada devi lasciare ‘o core a casa, piccerè”. Ershela la colpisce in profondità, lambisce la sua anima e la sfiora intimamente, in quell’unica intervista di poche ore. Le dice: “Le cose belle o brutte, si dicono”. La sincerità, la forza della semplicità, così assenti nelle nostre società ipocrite. Nel proseguo della storia si legge il degrado e l’orrore, l’abominio dell’essere umano in vendita, la tortura per denaro, ma anche un immenso amore. Sì, l’amore di una giovane donna dell’Est, con i suoi sogni spezzati e annegati nella fogna dell’umanità, che fino all’ultimo non perde la sua bontà e l’affetto per la sorella. Ed ecco che Ershela scrive, scrive sempre ad Alina: le racconta tutto, i sogni delusi, l’inganno, la vita per strada, la violenza, i pestaggi, lo schifo che prova costantemente. Sono lettere disperate e piene d’amore, fino al sacrificio. Non le spedisce mai e per i fortuiti casi del destino arrivano a Viola. Arrivano a Lucia. Ci mette ventisei anni, riflette, pensa, si cruccia, e poi, finalmente dà alla luce Sorelle spaiate.
Ho letto il libro in poche ore. Lo stile scorrevole e curato rende la lettura piacevole, per quanto il tema sia difficile: graffia l’anima. Ho pensato inevitabilmente alla mia storia di immigrata, di diciassettenne che fa la fila per il permesso di soggiorno, vive in un tugurio, studia alle serali e svolge lavoretti molto umili. Io, però, avevo con me una madre amorevole e un fratello protettivo. Poi si è aggiunto anche papà in quell’appartamento scassato: era una fonte inesauribile di dolcezza e ironia. Guardavamo i film di Totò, una seconda religione a casa nostra, e ridevamo a crepapelle anche dopo la decima visione. Mi manca molto mio padre, moltissimo.
Poco fa sono tornata dal cimitero, ho accompagnato mia madre che ha portato un mazzo di calle a suo figlio. La pianta è un regalo di Germano, per il suo compleanno, l’anno scorso. La tenevo per un braccio, lei si appoggiava a me e al bastone. Ha ottantasette anni, i capelli bianchi, il cuore fatto a pezzi. Non posso fare niente per consolarla, sono a pezzi anch’io. Cosa direbbe a me Ershela? Credo questo: “Non perdere tempo in cose inutili, neanche un minuto, ama ciò che hai”. Leggete questo libro, ad ognuno di voi Ershela saprà dire qualcosa.