Arriva l’equinozio d’autunno, l’equilibrio della natura
“Come il seme nascosto nella terra, il morto può sperare in un ritorno alla vita sotto nuova forma.” Mircea Eliade
Il termine stesso “equinozio” che viene dal latino “aequa nox”, ovvero “notte uguale”, il giorno in cui le ore di luce e di buio hanno la stessa durata, ci racconta di un equilibrio naturale che governa la terra in questo periodo dell’anno. Nel 2024 l’equinozio d’autunno sarà precisamente questa domenica. Lunga è la tradizione mitologica e mistica che lega la nostra cultura a quella del passato, anche il più remoto: il Mabon dei Celti, il mito di Persefone per i Greci e di Prosperina per i Romani, San Matteo Evangelista e l’Arcangelo Michele per i Cristiani. Sia per gli antichi che per noi, l’equilibrio del nostro pianeta e il ciclo del raccolto che si conclude, fa nascere di riflesso un bisogno naturale all’introspezione. Nel mondo rurale l’esigenza era legata alla materialità della vita, financo alla sopravvivenza; per noi si trasforma soprattutto nella necessità di fare un bilancio in questi mesi conclusivi dell’anno. La natura ora si ferma, si concede il meritato riposo, avendo prodotto il miracolo della vita che nasce, cresce e matura. Parafrasando questa elementare formula della ciclicità, si potrebbe dire che in questo periodo ci chiediamo se abbiamo seminato bene nella nostra esistenza, affinché l’autunno ci riservi l’ultimo abbondante raccolto. Fermarsi dunque, raccogliere le energie e avere coscienza del presente, prima che la stagione muti e l’anno scivoli via.
Non c’è un momento migliore di questo per meditare, passeggiare nella natura, nei boschi che cambiano colore, stare all’aria aperta e respirare profondamente. La natura ci darà le risposte, allevierà i crucci e saprà persino accarezzare un’anima sofferente.
Torniamo al mito, alle sue antiche origini in cui affondano le nostre radici. In tutte le culture, anche nelle più antiche come quella sumerica, il periodo che va dall’equinozio d’autunno fino al solstizio d’inverno ha a che fare con il mondo oscuro, il buio, l’aldilà e la morte. Luoghi e simboli sui quali i vivi non possono agire, non hanno alcun potere, tranne prendere coscienza dell’invisibile all’occhio, di una realtà parallela alla vita umana. Proprio per questo l’equinozio ha sempre avuto un carattere meditativo, di bilancio e di presa di coscienza: non il vivere passivo ma il ringraziamento, la gratitudine, la speranza e l’attesa di un nuovo inizio. Ed è stato l’umile lavoro agricolo, manuale e di osservazione, di attesa mai passiva, ad aver portato l’uomo a formulare in se stesso, per poi esternarla, una nuova speranza di vita oltre la morte.
In Grecia si svolgeva una suggestiva celebrazione in questo periodo e riguardava i misteri eleusini, arcaiche ritualità che avevano lo scopo di celebrare l’eterno divenire della vita. I riti erano associati al culto di Demetra e alla leggenda del rapimento di Persefone, sua figlia, da parte di Ade, dio degli inferi; il rapimento provocò un dolore immenso nella dea della natura e causò l’arrivo dell’inverno su tutto il mondo. Allora intervenne Zeus e trovò un accordo: Persefone sarebbe rimasta sei mesi con Ade negli inferi e gli altri sei sarebbe ritornata alla madre, alla natura. Nacquero così le stagioni, eternamente dipendenti dall’umore di Demetra, a seconda della presenza o dell’assenza della figlia. A questi rituali anche di tipo iniziatico, sono associati quelli più prosaici della raccolta, spremitura, fermentazione del vino: morte e trasformazione in analogia con il ciclo di vita, morte, trasmutazione e passaggio a una nuova forma. Il ciclo dell’uva, della vendemmia, della trasformazione del grappolo in vino, mediante la fermentazione, ha reso la bevanda sacra anche presso i Cristiani. Simboleggiando il sangue di Cristo e l’essenza dello spirito immortale, il vino viene offerto nell’Eucarestia.
Presso gli antichi la vite era associata all’albero della vita, in grado di collegare i due mondi e di trapassare le dimensioni permettendo lo scorrimento delle energie vitali. La pianta era sacra a Dionisio (“nato due volte”), il cui culto era legato alla morte e alla rinascita, assieme a quello di Osiride presso gli Egizi, anch’esso legato all’appassire e al successivo ritorno alla vita: l’inverno e il ritorno della primavera rappresentati dalla piena e dalla secca del fiume Nilo.
Per i Cristiani si ricorda la figura di uno degli evangelisti, San Matteo, autore assieme a Marco, Luca e Giovanni dei Vangeli che raccontano la vita di Gesù. Recita un proverbio popolare veneto: “da san Matio (Matteo) le zornade va indrìo”, si accorciano le ore di luce e si avvicina il buio che porterà verso il solstizio d’inverno, quando accadrà l’esatto contrario fino alla primavera. Connessa ai significati dell’equinozio è anche la celebrazione dell’arcangelo Michele, ancora molto sentita. Gli arcangeli del 29 di settembre sono Michele, Gabriele e Raffaele, ma è al primo che si lega una grande forza solare e un vigore a tratti marziale. L’angelo, simboleggiato con la spada, guida le milizie angeliche nella lotta contro gli angeli ribelli, guidati da Lucifero. Egli, dunque, diventa il simbolo della volontà che attraversa il buio, la tenebra, della stagione invernale, ed è una promessa, una speranza della vita oltre la morte. San Michele abbatte il buio rappresentato dagli inferi, difende la luce e, con la spada in mano, schiaccia ai suoi piedi le forze del male. La scelta di festeggiarlo a fine mese, con gli altri arcangeli che portano la luce, e legarlo all’equinozio, rappresenta un appello al coraggio, alla lotta per sconfiggere la paura indotta dal buio e dal freddo. Si potrebbe dire che Michele è la forza dentro ognuno di noi, quella capacità di attraversare le tenebre dell’esistenza e ricominciare tutto d’accapo.
Spostandoci nel Nord Europa, scopriamo che le antiche popolazioni celtiche festeggiavano l’equinozio autunnale dedicandolo a Mabon, il giovane dio della vegetazione e dei raccolti. Un culto legato al mito di Demetra o Prosperina, con delle peculiarità proprie. Nelle iscrizioni romane in Bretagna, il dio era indicato come il figlio di Modron, la dea madre. Rapito tre notti dopo la sua nascita, fu imprigionato da Arawn nell’Annwn, l’oltretomba nella mitologia gallese. Arawn era una divinità originariamente legata alla caccia e poi al ciclo delle stagioni, una specie di Cernunnos (dio della fecondità, della virilità, della caccia, della guerra, della natura selvaggia e anche dell’oltretomba, raffigurato con le corna di cervo, maturo, e con i capelli lunghi) britannico. Dopo lunghi anni Mabon fu liberato da Culhwch, cugino di re Artù. Il lungo soggiorno nell’oltretomba rese il dio eternamente giovane come lo è la primavera.
In tutte le rappresentazioni, dunque, troviamo il rapporto dell’uomo con il buio che si avvicina, il timore di non riuscire ad attraversarlo, e la forza, la fede che oltre questo abisso ci sia dell’altro. Un momento di equilibrio e di trasformazione, di energie consumate e nuove forze da rigenerare, con costanza, in un’attesa mai passiva. Se Ungaretti, dai campi di battaglia della Grande Guerra, pensava e scriveva “si sta come in autunno sugli alberi le foglie”, la precarietà e la vacuità della nostra vita possono trovare risposte e ristoro nelle fede, nella speranza che i semi della vita, della sua essenza, non si perdano nelle gelate invernali ma trovino la forza di germogliare ancora.