Giorno del Ricordo: il racconto “Angelina”
Quest’anno non sarò presente come di consueto al Comune di San Vito al Tagliamento, in occasione del Giorno del Ricordo. Causa delicate questioni personali non potrò organizzare la rappresentazione (con lettura scenica) presso la Sala Consiliare, evento annualmente voluto dal sindaco Antonio Di Bisceglie e dal caro amico Angelo Battel, direttore della Biblioteca civica. Il mio piccolo contributo sarà includere ai racconti del mio sito il testo “Angelina”, rappresentato l’anno scorso con la lettura e la drammatizzazione dell’attrice Luisa Mari.
Con il Sindaco di San Vito al Tagliamento, Antonio Di Bisceglie, nella Sala Consiliare del Comune.
“Angelina”
Rovigno di notte, vista dall’Isola di Santa Caterina, è una perla di luci colorate, contaminate dai cromatismi accesi delle case sul lungomare. Sopra i palazzi e le piazze, in alto, oltre le punte degli alberi sempreverdi, troneggia il campanile veneto di Santa Eufemia, costruito con la candida pietra d’Istria. In cima al campanile si vede lei, la Santa: una possente figura di bronzo, imperiosa, superiore alle miserie umane, addolorata per i suoi figli confusi e sconvolti dalla Storia. Un simbolo di questa città contesa tra due umanità che professano credi diversi e si identificano in valori contrapposti. Ma lei, la Santa, mi osserva in tutta la sua maestosità, anche ora che il mio tempo appare finito, adesso che la mia vita è sconvolta dagli eventi, dalla guerra, dalle sue ineluttabili e interminabili conseguenze. Santa Eufemia rimane il simbolo delle donne rovignesi e di tutte coloro che col tempo lo sono diventate. La protettrice della città e delle tante operaie che hanno costruito la loro vita e l’economia di Rovigno, nella fabbrica tabacchi. Sono stata una di loro, per oltre trent’anni. Io, una donna dell’Ottocento, nata nel cuore roccioso e impervio dell’Istria interna; cresciuta tra l’assenzio e il muschio, tra il carso e gli animali senza padrone, tra i boschi e i prati di una terra rigida che concede poco, proprio io sono diventata indipendente e padrona della mia vita, quando le ricche donne borghesi, di mezzo mondo, erano solo serve.
Ero giovane e fiorente, promettente come un mattino di primavera, quando la sorte mi ha condotto a Rovigno, nella fabbrica fatta da donne. La casa rurale di Stridone, dove sono nata, era la più “nobile” del paese, in quanto una mia lontana ava la ricevette in dono da un suo aristocratico amante, un marchese della potente famiglia capodistriana dei Gravisi che aveva perso la testa per lei, ma che non poteva e non voleva sposarla. Luoghi, tempi, modi di vivere troppo distanti da me che invece volevo decidere, scoprire, reagire a quella miriade di regole che non avevo contribuito a creare ma che mi volevano sottomessa e inerte. Così la via di fuga verso il mare, verso il clima mite, mediterraneo, della perla sull’Adriatico istriano, mi apparve come il faro nella nebbia. Iniziai a lavorare nella fabbrica costruita dagli austriaci che ero una ragazzina e dovetti imparare mille regole, mille trucchi e segreti, per fare al meglio il duro lavoro manuale della “tabacchina”; l’operaia che confezionava i sigari “Virginia”, apprezzati dai signori eleganti e abbienti, nelle metropoli di tutta Europa. Fu tra quelle mura severe che ritrovai la ragazzina ribelle che sono sempre stata, colei che non sognava il velo da sposa; la fanciulla dalle fattezze d’angelo che gli uomini rincorrevano inutilmente, la giovane donna che cercava un senso alla sua vita. Nel duro lavoro dell’operaia, come per magia, mi apparve il senso semplice, elementare, essenziale della mia ribellione; nelle mani screpolate dalla fatica, mentre piegavano furiosamente foglie di tabacco, nei turni massacranti del lavoro a cottimo che garantiva a noi donne qualcosa che andava oltre la dote: ci garantiva il salario. In una vecchia canzone rovignese una giovane operaia ricorda al suo fidanzato, un pescatore, che sarà lei a portare a casa i soldi e che non le occorre promettergli alcuna dote. Ed era così, per la maggior parte di noi. Ricordo il mio primo stipendio, mi tremavano le mani quando lo strinsi tra le dita. Erano soldi miei, guadagnati col sudore, conquistati a duro prezzo. Pensai a quante cose avrei potuto fare col denaro, da lì alla fine della mia vita. Pensai alle cose frivole prima di tutto, in fondo ero solo una giovane ragazza. Sarei andata al negozio di stoffe e avrei acquistato qualche metro di lana leggera, rossa come il fuoco, e l’avrei data alla sarta per farci un vestito sgargiante, voluttuoso. L’avrei adornato con pizzi e merletti, con perle e spille, l’avrei arricchito con cappellini neri e velette. Avrei indossato guanti di raso e scarpe col tacco, come le signore della borghesia, e sarei stata più bella di loro. Avrei riscattato l’onore della mia ava di cui il nobile seduttore si era invaghito, ne aveva assediato il cuore e l’anima, e poi l’aveva liquidata con un dono da cortigiana. Però non feci nulla di tutto ciò. Perché il mio di cuore e la mia anima, in profondità, mi suggerivano altro e così avrebbero sempre fatto. Inviai i soldi a mia madre, le scrissi di aiutare i nostri parenti e di comperare finalmente il servizio di piatti decorati che tanto desiderava, per il pranzo della domenica. L’onore l’avrei riscattato migliorando la vita di coloro che mi stavano a cuore.
Così passarono i mesi e anche gli anni, diventai un’operaia eccellente che guadagnava bene ed era rispettata dai capireparto e dalle colleghe. Ma le notti di una donna sola erano lunghe, interminabili e solitarie. Mi rigiravo nel letto, tra fresche lenzuola di cotone, in quella confortevole stanza in affitto, in quella casa di pietra cruda che dava sul mare e aveva una vista spettacolare. Quando andavo a messa e risalivo il ripido selciato che portava in cima al monte, alla chiesa della Santa, mi sentivo gli occhi addosso. Ero consapevole della mia avvenenza, sapevo che gli uomini mi guardavano: sguardi indagatori, sguardi di desiderio, sguardi insolenti, sguardi mascherati di indifferenza. Non contraccambiavo nessuno, in fondo non vedevo nessuno. Però ero sola, priva di quel calore umano che conforta e che solo un uomo può dare; cominciava a pesarmi questa grande solitudine, fatta soltanto di doveri. Quell’anno andai al gran ballo di Capodanno organizzato dalle tabcchine: l’occasione mondana per eccellenza, un’immensa sala piena di uomini scapoli ben vestiti, con la brillantina nei capelli e ai piedi le scarpe lucide, e noi, donne da marito emancipate, col nostro salario che poteva fare la differenza.
Lui mi si avvicinò per chiedermi di ballare. Accettai, mi piacque subito. Sapeva stringermi con decisione e con dolcezza, mi fissava negli occhi senza titubanze. L’accento rovignese, le parole quasi sussurrate all’orecchio, la voce calda e maschile. Mi chiese il mio nome, gli dissi “Angelina”. Con un sorriso tra il malizioso e l’irriverente rispose:“il nome appropriato per questo viso d’angelo”. Non ci mise molto a conquistarmi, non mi corteggiò a lungo. Nulla durava molto nella mia vita, l’unica costante è sempre stata il lavoro. Dopo poco ci sposammo, mi portò a vivere nella sua piccola casa, in cima al colle, vicino alla Santa. Rimasi incinta quasi subito, lui mi amava come dubitavo si potesse amare una donna; mi voleva sempre, mi desiderava sempre, anche quando ero stanca, in disordine o disorientata. Non ero più sola, ora ero moglie e madre, tutto pareva semplice e perfetto. Diedi alla luce un maschio, forte e sano. Sapevo che sarebbe cresciuto armonioso e sereno, sapevo che io avrei fatto in modo che le cose andassero così. Anche se amavo profondamente mio marito, anche se sapevo con certezza che avrei amato solo lui per il resto della mia vita, sentivo, percepivo che la felicità di mio figlio dipendeva unicamente da me. Ritornai in fabbrica poco dopo lo svezzamento, dando il bambino a balia. Il lavoro mi faceva volare lontano con la mente, mi perdevo tra progetti entro altri progetti e intanto la vita scorreva, inesorabile, portandosi via la giovinezza. L’uomo che amavo si stava allontanando da me, un allontanamento appena percettibile all’inizio, un campanello d’allarme per ogni donna innamorata. Sedeva a tavola in silenzio, fissava la finestra dalla quale si scorgeva il mare azzurro, quel mare che lo trascinava lontano dalla sua quotidianità, dalle responsabilità, da me, da suo figlio. Cercai di parlargli, di interrogare il suo cuore per capire i crucci, le malinconie, le insoddisfazioni, ma non sono mai stata brava con le parole, ne ho sempre usate poche. Quando rimasi incinta per la seconda volta, di un altro maschio, a neanche due anni di distanza, le cose precipitarono. Il mio uomo da malinconico divenne cupo, da insoddisfatto divenne disincantato, per poi trasformarsi in un essere insofferente, chiuso in una gabbia. Il modo di liberarsi lo trovò in fretta, si imbarcò su una nave e iniziò a girare il mondo, superò quel confine che l’occhio vedeva dal colle di Rovigno, superò quell’orizzonte.
Ricordo come fosse ieri una delle sue partenze, i miei ragazzi erano due giovani puledri un po’ scapestrati che giocavano in mezzo alle barche dei pescatori, mentre io, avvolta in uno scialle che a stento mi proteggeva dalla bora sferzante, salutavo mio marito con la mano infreddolita. Fu l’ultima volta che lo vidi, dall’alto della sua nave; mi sembra di vedere ancora il suo timido saluto, come se si stesse scusando di qualcosa di doloroso ma inevitabile.
Tirai su i figli da sola, con caparbietà, tenacia, con forza. Le chiacchiere non mi scalfirono nemmeno, le illazioni sulla donna abbandonata dal marito, con due figli ancora piccoli, per un’altra, un’altra famiglia oltre oceano, non riuscirono ad annientarmi. Niente piagnistei, niente crisi nervose, occorreva rimboccarsi le maniche e continuare a testa alta. Mia nonna lo diceva sempre che il male entrato dalla porta va ricacciato dalla finestra.
Così i miei figli crescevano forti e sani, sereni e equilibrati. Li feci studiare, gli permisi di seguire le loro inclinazioni e ambizioni, perché volevo farne degli uomini liberi. La solitudine mi attanagliava spesso, le notti solitarie, il letto vuoto, erano una tortura, ma ora avevo uno scopo, la mia vita aveva un senso e non permettevo al mare oscuro dell’abbandono di soffocarmi. Per quanto fossi determinata a non farli soffrire, a tenerli lontani dai grandi dispiaceri della vita, il destino aveva tracciato un percorso diverso, non solo per noi, ma per l’umanità che ci circondava. La guerra arrivò lenta e strisciante nelle nostre case, non esplose in un immediato bagno si sangue. Ci furono la miseria, i lutti, la fame e il terrore. Alla fine la furia d’odio del mondo rurale assediò anche Rovigno, la circondò di minacce, la piegò sotto il peso del ricatto. Intorno a noi il vuoto nero che inghiottiva uomini e cose, in quelle voragini carsiche a imbuto, profonde, collegate direttamente all’inferno, dove troppe vite sparirono. Poi la gente iniziò a fuggire, prima dai paesi, come la mia lontana Stridone, poi dai borghi più grandi, in tutta la regione. Le case si svuotarono, le masserizie si caricarono sui camion e si sbarrarono porte e finestre con assi di legno, nel vano tentativo di proteggere qualcosa che sarebbe comunque stato sottratto. Dopo il Trattato di Pace di Parigi per buona parte della mia disgraziata terra non ci furono più speranze, passò definitivamente in mano ai conquistatori venuti da lontano, con usi e costumi differenti che segnavano un solco tra noi e loro. Rovigno invece resisteva, imperterrita, intrepida e per qualcuno imprudente; scese a patti col conquistatore, cercando un dialogo e un modo per sopravvivere. Eravamo una cittadina di operai e di pescatori, qualcuno pensò che il regime comunista poteva essere un nuovo inizio, un punto di partenza equo e giusto, dove le differenze, le lingue e le sensibilità sarebbero state rispettate. Si ingannarono, si illusero e a breve la furia violenta e la sopraffazione li avrebbero travolti. Accadde nel 1948, quando Tito e Stalin entrarono in un conflitto personale per l’egemonia e il dominio sulla nuova nazione sorta nel cuore dei Balcani e, quest’ultimo, sconfessò il partito del maresciallo jugoslavo, lanciandogli un anatema, scomunicandolo a livello mondiale. La reazione brutale degli esclusi non si fece attendere, ed i primi a cadere sotto la scure della vendetta indiscriminata furono i comunisti rovignesi e tutti gli altri accorsi dall’Italia, reduci da una guerra che gli aveva dato la libertà ma non gli ideali marxisti, alla ricerca del paradiso comunista balcanico in costruzione. Li prelevarono casa per casa, me lo ricordo ancora. Gli uomini di Tito, della polizia politica che ora si chiamava Udba, dopo averli accusati di collusione con i Cominform, li conducevano nel carcere di Pola e da lì su un’isola della Dalmazia, l’ Isola Calva, Goli Otok nella nuova lingua ufficiale. In quel luogo di roccia infernale – come mi raccontò segretamente un uomo ritornato dopo un paio d’anni – i comunisti torturavano brutalmente altri comunisti, fino allo stremo, fino alla morte. Era l’apogeo della follia ideologica, l’abisso nel quale il potere ci stava trascinando. Pensai che avevo fatto mille sacrifici e mille rinunce affinché i miei figli fossero liberi, affinché fossero se stessi. Ora non mi sarei arresa al potere che ci voleva oppressi, spaventati e miseri, schiavi di questa o quella interpretazione della medesima ideologia nella quale non mi sono mai identificata. Così assieme a uno dei miei figli e a mia nuora, abbiamo deciso di lasciare tutto, sogni e delusioni, e di cercare un nuovo inizio in Italia. Da quando sono in pensione vivo con loro e con le mie tre splendide nipotine, la luce dei miei vecchi occhi stanchi che hanno visto tanto, forse troppo. L’altro figlio è lontano da Rovigno ormai da anni, al sicuro. Quindi domani partiamo per un lungo viaggio che mi porterà in luoghi che non conosco. Ed ora sono qui, seduta sulla roccia di quest’isola, da sola. Ho un foglio tra le mani, quelle mani un tempo belle e adesso piene di nodi, funestate dalla vecchiaia e dalla fatica. Una lettera venuta da lontano, da oltre il mare, da oltre l’orizzonte. Lui mi scrive parole su parole, spiegazioni, scuse. Non lo riconosco più, non mi sembra l’uomo fiero e senza titubanze che avevo tanto amato. Mi sembra fragile, pentito, stanco. Un vecchio senza prospettive, tormentato dal rimorso e sopraffatto dalle sue inettitudini. Alla fine dello scritto chiede, implora il mio perdono, quasi si umilia. Dice che darebbe qualsiasi cosa per passare gli ultimi anni di vita con me, dice che non mi ha mai dimenticata e che non ho mai lasciato il suo cuore. Vorrebbe tornare indietro o forse vorrebbe solo ritrovare quella ragazza col viso d’angelo, conquistata con un valzer, in un’anonima sala da ballo piena di giovinezza e illusioni. Gli ho scritto che lo perdono e che non gli serbo rancore. L’ho fatto lontano dai miei figli che mai comprenderebbero. Ma non sono più la ragazza che porta il nome di una creatura biblica, i sogni e le illusioni sono svaniti da tempo. Ho visto l’orrore passarmi davanti e mi sono sentita impotente, ho implorato la Santa giorno e notte, senza tregua, sperando che le miserie dell’umanità non mi strappassero il cuore dal petto. La Santa mi ha ascoltato, ha sentito i miei pianti e si è commossa. Non so usare molte parole, ne dico poche. La forza di una donna, l’essenza della sua libertà, consiste nel perdono. Questa è l’arma che la vita mi ha concesso nel suo imprevedibile finale, l’arma più difficile da trovare, il mezzo più efficace che trascende ogni altro per riscattare la Storia e la Vita.