Genocidi dimenticati: i Killing fields di Pol Pot in Cambogia
Le foto che compaiono in questo articolo sono in omaggio alla bellezza della Cambogia e in contrasto col progetto di sterminio criminale dei cosiddetti Khmer rossi. Nella foto di copertina Arcieri dell’esercito Khmer, bassorilievo del XII – XIII secolo.
Quest’anno ricorrono i cinquant’anni dell’inizio di un brutale genocidio, un evento spaventoso e disturbante messo quasi in disparte dalla storiografia ufficiale. Il 17 aprile del 1975 i Khmer rossi guidati da Pol Pot entrarono nella capitale Phnom Penh, dando il via a uno dei massacri più grandi – e volutamente dimenticati – della stagione del “socialismo reale”. Sarà, infatti, un vero e proprio genocidio, consumatosi tra l’aprile del 1975 e il gennaio del 1979, coincidente con la fine della guerra in Vietnam e il disimpegno degli Stati Uniti dallo scenario indocinese. Il regime comunista di Pol Pot procedette a un processo di “epurazione” che costò la vita a 1.500.000 fino ai probabili 2.500.000 di cambogiani. Gli autori materiali dello sterminio furono una massa di giovani indottrinati, per lo più contadini non scolarizzati, manovrati da un gruppo ristretto di dirigenti politici di formazione stalinista.
Palazzo reale di Phnom Penh
I Khmer rossi erano sostenuti dagli alleati Vietcong e riuscirono a rovesciare il governo di Lon Nol in pochissimi giorni. Dalla capitale decisero di estendere la loro rivoluzione comunista a tutto il paese, contando in parte sul malcontento popolare causato dalla crisi economica imputata al governo precedente. Da un lato c’erano i “nemici del popolo” (politici, amministratori, intellettuali, liberi professionisti, insegnanti, medici, ecc.), dall’altro i contadini a cui fu assegnato il compito di “costruire la nuova società del futuro”. Non si condannano dunque i nemici per le loro responsabilità individuali, bensì si annientano in quanto appartenenti a una classe sociale. In pratica come fu per i nazisti il concetto di “razza”. Il genocidio cambogiano si distingue dagli altri del Novecento (ebrei, armeni) perché non ha basi etniche (seppure si uccidono persone anche su questa base) ma sostanzialmente culturali in senso lato ed economiche. Un esempio? Chi portava gli occhiali o aveva le mani curate veniva immediatamente ucciso quale “nemico del popolo”. Si salvarono soltanto coloro che deturparono il corpo a sufficienza per essere scambiati per contadini. Chi non morì subito fu costretto ai lavori forzati nelle piantagioni di riso e iuta: i famigerati Killing fields.
Santuario Banteay Srei, in onore della dea indù Shiva, Angkor.
Le categorie inizialmente più colpite e la percentuale degli uccisi sono terrificanti: ufficiali dell’esercito (82,6%), poliziotti (66,7%), magistrati (99%). La categoria degli insegnanti fu totalmente eliminata. Morirono anche l’84% dei monaci buddisti, il 33,7% dei musulmani Chan, il 48,6% dei cattolici, il 38,4% dell’etnia cinese e il 37,5% di quella vietnamita. (Fonte: Gariwo – la foresta dei giusti).
L’élite che progettò il genocidio si faceva chiamare “Grandi Fratelli” e il suo principale esponente, il “fratello numero uno”, era Pol Pot; assieme a lui i suoi fedeli, come Duch, direttore dell’agghiacciante campo S-21 della Kampuchea (uno dei pochi ad essere stato processato per crimini contro l’umanità). Si erano formati ideologicamente in Francia negli anni ’50, per poi passare all’opposizione in Cambogia e in clandestinità nella giungla.
Gli esecutori erano quadri insignificanti del partito, di basso livello culturale, insieme a 60.000 giovanissimi contadini selezionati perché non “contaminati” dalla vita urbana, dal capitalismo e soprattutto dal sistema scolastico. Lo sterminio fu pianificato ancora al tempo della clandestinità, con una visione folle ed esasperata di ostilità verso le città e a cui si opponeva l’assurdo progetto basato unicamente sull’agricoltura e la coltivazione del riso. Nacque così il concetto di “nemico oggettivo” che pose le basi al massacro. Uccidere gli elementi legati al vecchio regime si chiamava “purificazione” della società che così guariva dal “tumore borghese”. La deportazione di centinaia di migliaia di cittadini nelle campagne era detta “rieducazione”. Questa rieducazione portava inevitabilmente alla morte dei deportati, sottoposti al lavoro massacrante, alla fame, alle sevizie e alla tortura. L’entità numerica delle vittime stimate, come detto in precedenza, si aggira tra 1.500.000/1.800.000 e 2.500.000. La Cambogia contava in tutto 7.500.000 abitanti, quindi il tasso di assassinati oscilla tra il 20%, il 29% e oltre della popolazione. I morti nelle aree urbane toccano il 40%. In pratica è stato sterminato almeno un quarto della popolazione cambogiana. Nel solo campo di Choeung Ek sono state trovate, dopo la caduta del regime, 86 fosse comuni con 8.985 corpi ma si presume che in totale fossero sepolte 10.000 persone. Si consideri che sono state trovate decine e decine di fosse comuni in tutto il paese. Nel campo S-21, su 17.000 prigionieri sono sopravvissuti soltanto in 7.
Raffigurazione allegorica dell’antica civiltà Khmer
Dopo quattro anni di dittatura e terrore, il regime di Pol Pot fu destituito da truppe regolari vietnamite. L’esperimento di ingegneria politica cambogiana, in soli quattro anni, ha presumibilmente ucciso più di due milioni di persone (fame, carestia, prigionia, tortura) e ha tentato con massima ferocia di riportare indietro le lancette della storia. Fu abolita la proprietà privata, gli ospedali, le professioni; dalle città tutti furono deportati nelle gigantesche fattorie collettive a morire di fame e sevizie. Quello della Cambogia comunista si può definire un esempio di società totalitaria pura, perfetta nella sua mostruosità, in cui i ragazzi aguzzini hanno ucciso impunemente (non ha pagato nessuno). Pol Pot è morto serenamente e i suoi vertici l’hanno fatta franca, eccetto tre casi, e dopo dieci anni di lavoro (2006 – 2016, Tribunale delle Nazioni Unite).
Come mai si è agito poco e tardi? Giulio Meotti lo spiega bene sulle pagine del Foglio, dove racconta la cecità ideologica degli intellettuali occidentali, in primis Noam Chomsky (il professore più citato sui social, soprattutto da chi non ha mai letto un suo libro), poi l’incensato Jean Paul Sartre e lo svedese, molto influente, Jan Mydral (scrittore, regista, attivista di fede maoista).
Tanti furono i giornalisti e gli intellettuali di sinistra che si schierarono immediatamente con i Khmer rossi, scrive Meotti: il giornalista di Le Monde Jacques Decornoy esultò parlando di una nuova società che sarebbe stata creata ex novo, mentre il suo collega Ruhmen scrisse che era uno spettacolo straordinario per uno svedese l’arrivo dei Khmer rossi nella capitale; di più, non aveva mai assistito a una scena più bella e non poteva fare a meno di piangere. Uno spettacolo davvero edificante dove si bruciano i libri, si aboliscono le scuole assieme alle parole “io” e “mio”. Per gli intellettuali italiani, invece, queste erano le avanguardie della rivoluzione indocinese contro l’imperialismo americano, sosteneva Tiziano Terzani che sull’Espresso accusò esplicitamente gli americani della crisi economica e definì i Khmer rossi progressisti. Il genocidio denunciato dai rifugiati? Nessuna prova, solo una montatura. La deportazione era una misura valida, draconiana ma, vista in prospettiva, necessaria per riprendere le colture. Così Terzani, citato da Meotti.
Neanche a dirlo, il quotidiano Libération di Sartre, dopo mesi dalla “liberazione” Khmer, continuò a parlare di eroismo, di risaie verdi, di canti dei contadini ben nutriti e definì le testimonianze dei campi di concentramento come “universo miserabile di certa stampa”. Soltanto dopo anni il quotidiano si degnerà di dire la verità, senza però scusarsi per la “svista”.
Gli ecologisti francesi si mostrarono entusiasti di questo esperimento di ingegneria sociale e politica e del leader Pol Pot. Scrive Meotti che sulla Gueule Ouverte, giornale ecologista, sotto il titolo di “Maggio 75 in Cambogia”, vengono elogiati i Khmer: “Che lezione da parte di questi contadini in stracci, rivoluzionari in calzoncini corti, questi contadini che deportano un’intera città in campagna in puro stile Alphonse Allais. Se c’è stato un massacro, è stato un massacro di simboli, un massacro dell’oggetto. Una rivolta radicale contro la società dei consumi, contro questo regno della spazzatura dove la merce regna sovrana. E non soltanto in Francia.”
L’Ecologist, altra rivista francese, intitola “La città è morta” e a firma del vicedirettore Robert Allen, ci si esalta per l’abbandono dell’economia urbana, visto come qualcosa di rivoluzionario e di estremo interesse. “Chiudono fabbriche, distruggono l’approvvigionamento idrico urbano, demoliscono le banche, bruciano tutta la carta moneta su cui riescono a mettere le mani. Meritano i nostri migliori auguri e la nostra simpatia”. Così il direttore dell’Ecologist.
François Ponchaud, inviato in Cambogia come sacerdote, fu tra i primi a rivelare l’entità dei crimini compiuti dal regime comunista e raccolse la sua esperienza nel 1977 in un libro, “Cambodge Année Zéro”. Fu attaccato duramente da tutta la sinistra accademica, in particolare da Noam Chomsky, l’iconica musa dell’intellighenzia progressista e dei successivi no-global e no-tutto, che liquidò il libro come “opuscolo propagandistico di terz’ordine.”
Tremenda la sorte di Malcolm Caldwell, studioso marxista scozzese che considerava l’esperimento cambogiano come la promessa di un futuro migliore per tutti e considerava le storie dei rifugiati che testimoniavano gli orrori come falsità smentite dal ministro Hu Nim (successivamente torturato e ucciso anche lui durante una purga nel partito); nel dicembre del 1978 Pol Pot lo invitò assieme ad altri due giornalisti occidentali a partecipare a un tour in Cambogia. Era, ovviamente, un “giro” confezionato a regola d’arte e i giornalisti non potevano parlare con nessuno. Dopo due settimane, Caldwell fu convocato da Pol Pot e poche ore dopo fu assassinato nella sua stanza d’albergo. Meotti nel suo pezzo cita la collega di Caldwell Elisabeth Becker: “La morte di Caldwell fu causata dalla follia del regime che ammirava apertamente.”
Sempre nel 1978 quattro giornalisti americani visitarono la Cambogia, tra di loro Daniel Burstein che definì sul New York Times calunniose menzogne le storie degli orrori. Nessuno a sinistra, nel mondo accademico e in quello del giornalismo, un anno prima della caduta del regime, era ancora disposto a dire la verità.
Meotti cita ancora il professore di linguistica del prestigioso Mit, Noam Chomsky, che con Edward Herman, accusò i media americani e molti studiosi che riportavano notizie dal mattatoio cambogiano di produrre propaganda. Gli studiosi e attivisti George Hildebrand e Gareth Porter, nel loro libro “Cambogia: Fame e rivoluzione”, arrivano a giustificare in modo paradossale e assurdo le deportazioni dalle città come il tentativo di avvicinare la popolazione alle fonti del cibo e la chiusura degli ospedali come un modo di migliorare l’assistenza sanitaria. I diritti umani lesi furono liquidati da questi studiosi come attacchi della stampa capitalista contro un regime socialista. Nel 1977 al Congresso americano, Porter continuò a dire che non c’erano prove a sostegno delle accuse di crimini e atrocità in Cambogia e che la vita sotto i Khmer rossi era positiva. Scrive Meotti: “Anni dopo troveremo Porter a Teheran.” Evidentemente per fare un certo tipo di “lavoro” bisogna esserci tagliati.
Quando il regime venne rimosso, nel 1979, in molti si arresero all’evidenza, ma non tutti. Alain Badiou, filosofo parigino, denunciò una campagna anti-cambogiana e titolò su Le Monde: “La Kampuchea vincerà!”. Non molti anni fa, scrive Meotti, Badiou farà una specie di mea culpa per i suoi trascorsi, scrivendo di rammaricarsi per quel testo su Le Monde e accusando di non essere stato l’unico sul quotidiano a prendere una tale “cantonata”.
Quando vennero fuori le migliaia di prove inconfutabili del genocidio, anche Lionel Jospin (ministro e premier francese negli anni ’90 e 2000) cercò di salvarsi l’onore scrivendo “I socialisti e la Cambogia” sempre su Le Monde, in cui sosteneva una lapalissiana verità attraverso una domanda retorica: “Dove i campi di concentramento hanno mai creato un uomo nuovo?”.
La chiosa finale è a dir poco acuta: lo storico Robert Conquest fu tra i primi e i pochi a documentare i crimini comunisti in Unione Sovietica (per questo oggetto di ostracismo e disprezzo negli ambienti accademici e intellettuali); Garzanti acquistò e tradusse il suo libro sull’Holodomor ucraino, per poi cestinarlo. Quando finalmente si aprirono gli archivi sovietici e la verità divenne anche qui incontestabile, chiesero a Conquest quale titolo volesse per il suo libro e lui rispose così: “Ve l’avevo detto, idioti.”