Il signore di Momiano
Ecco il racconto sul Castello di Momiano, una storia poco nota fuori dagli ambiti accademici degli storici. Un mio piccolo contributo per il recupero della memoria legata al bellissimo maniero – da tempo in rovina – dell’Istria interna. Il testo è stato pubblicato sul portale letterario Strane.ba, di Mostar, tradotto in croato dalla professoressa Lorena Monica Kmet.
“Honor et virtus”
Nell’anno del Signore 1311 a Gemona, al cospetto di Federico signore di quel castello e luogotenente del Patriarca di Aquileia, ebbi la nomina di feudatario di un remoto maniero: Momiano d’Istria, con l’obbligo di viverci e di non cederlo, per nessun motivo, ai Veneziani. Sono Francesco di Prampero, appartenente ad un glorioso casato, e affido alla parola scritta le memorie di questi giorni convulsi. Rimembro con nostalgia il castello dei miei padri che troneggia alle porte di Udine e si eleva oltre la miseria, oltre le barbarie di un’epoca di guerre, domini e morte. Honor et virtus è il nostro motto ed io l’ho sempre onorato. Gli intrighi di corte, i compromessi del potere, le strategie dei nobili feudatari non mi appartenevano. Io sono un militare, ho sempre usato la spada, indossato l’armatura, mi sono affidato al coraggio e agli insegnamenti di chi mi nominò cavaliere. Non ho mai trattato una resa senza combattere! Mai trovato un compromesso per non brandire la spada! Il nemico l’ho guardato negli occhi e affrontato senza curarmi delle conseguenze delle mie gesta, tenendo sempre presente il giuramento fatto tanti anni or sono. La dama del mio cuore ha atteso il mio ritorno dai campi di battaglia colma di pena, chiedendosi tutte le volte se mi avrebbe rivisto sul dorso del cavallo o supino sulla nera terra, prima di esserne per sempre inghiottito. Eppure ho amato la vita, la bellezza del mondo, la gioia di un’alba che sorge incurante dei crucci dell’uomo. Siamo esseri miseri e decadenti, figli di civiltà che il tempo ridurrà in polvere; la vita ci offre solo un assaggio di giovinezza, una stagione di fioritura e di speranze, per poi affossarci nell’abisso di una vecchiaia che giunge sempre troppo presto. Ed ecco che le mie mani, le mie membra, questo corpo un tempo vigoroso e forte, ora inizia il suo declino. Non è stato il nemico con la spada a fermarmi, bensì un nemico tanto più potente e insidioso. Il corpo non segue il rigore della mente o il sussulto della passione, esso si arrende ai demoni della morte giorno dopo giorno. Vedo nella giovinezza di mio figlio l’uomo che un giorno fui, pieno di promesse, come un chiaro di luna di primavera, e provo nostalgia per tutto ciò che è finito senza che me ne accorgessi. Cosa resta da fare ad un uomo che giunge al crepuscolo della sua vita? Questa è la domanda che attanaglia da tempo la mia mente, nelle lunghe e buie notti insonni. Ed eccomi qui, in questo castello scuro e sconosciuto, in mezzo alla verde campagna istriana e i miei occhi si perdono in un orizzonte indefinito. Momiano è circondato da collinette coltivate, da boschi rigogliosi, da casupole sparse abitate da gente ossequiosa. Un mondo che riconosco appena, un destino che non avevo previsto. Lo sguardo si perde oltre quei campi e quei borghi in giornate limpide come questa; vaga alla ricerca di qualcosa di familiare, per poi fermarsi su quella striscia di azzurro acceso, uniforme: il mare. Frapposto tra la terra e il cielo, affascinante e misterioso, sembra l’imo dell’anima di ogni uomo. Chi può sapere quale sia la sua missione nel mondo quando gli eventi travolgono ogni progetto che la mente compie? Il progetto di una signoria serena, da tramandare alla propria discendenza, assieme ai castelli e alle terre che i Prampero ottennero con l’intransigenza. Poi gli eventi stravolgono tutto, gli aiuti non arrivano e l’uomo che fu d’arme deve scendere a compromessi, come non ha mai fatto prima, per salvare se stesso e il proprio dissoluto figlio, in un anonimo castello che gli è stato affidato. Da giorni Momiano è assediato dalle truppe del conte di Gorizia, da quel bellicoso spregiudicato, arrogante e infausto mercenario che sa inimicarsi chiunque. Minaccia il feudo del Patriarca questo dannato discendente germanico di una stirpe barbara, con le sue fresche truppe di gentaglia ingaggiata dalla Carniola a Capodistria, mettendo in bella mostra l’orribile masnada di straccioni con poche spade e molte falci che precedono la cavalleria. Il nemico sa che la guarnigione del castello è insufficiente, sia per numero che per destrezza, e che da Aquileia alcun aiuto può arrivare in tempo per ribaltare le sorti. Quindi espugnare Momiano non dev’essere grande impresa per un uomo come lui, poiché Enrico, conte di Gorizia, ciò che sa fare meglio è la guerra. Usa moltitudini di uomini, di mezzi, di legami e appoggi per conquistare territori che puntualmente mette a ferro e fuoco. Quando le sue truppe di stolti trovano resistenza da parte dei conquistati, non lasciano molto al loro passaggio. Un bieco individuo privo di scrupoli dunque, da cui tenersi alla larga; ma altresì un nobile che sa usare la furbizia e l’astuzia per trovare degli accordi prima di scatenare i suoi mastini. Non ho mai sottovalutato questo presuntuoso signorotto che si sente un re, non ho mai ceduto alla tentazione di giudicarlo un incapace accecato dal gusto della sopraffazione: tra militari ci si intende anche quando vi è un profondo disprezzo e solo Iddio sa quanto io disprezzi Enrico di Gorizia. Ieri il conte mi ha fatto recapitare un’ambasciata, dopo giorni di silenzio nei quali le rispettive truppe si sono fronteggiate più a provocazioni che ad attacchi. Scrive il nobile altezzoso, su carta pergamenata recante lo stemma del suo casato, che egli vorrebbe risparmiare al castello, alla guarnigione, alle genti terrorizzate delle campagne, e soprattutto alla signoria mia, una tremenda sconfitta, un’infausta battaglia persa in partenza. Egli scrive anche che apprezza l’onore e le gesta dei Prampero che per secoli hanno rappresentato un esempio di virtù e coraggio, tanto da voler trovare un accordo affinché i rispettivi casati possano vivere pacificamente assieme. Poi, senza tanti preamboli, fa la sua sorprendente proposta: offre la figlia Elisabetta in sposa a Nicolò, mio figlio, erede di Momiano tra gli altri castelli. Da noi pretende la sua cessione, barattata con l’onore e la posizione della figlia, duecento marche aquileiesi e il remotissimo castello di Rachele sull’Arsa. In altre circostanze una proposta del genere l’avrei giudicata un affronto, una sfida a combattere; adesso invece che la stanchezza e l’artiglio della vecchiaia stanno disgregando l’uomo che ero un tempo, sto scendendo a più miti consigli. Mio figlio Nicolò, l’adorato pargolo di sua madre, nobile rampollo di terre friulane, ha dimostrato scarsa capacità di governo a Momiano. Il suo stravagante stile di vita, fatto di lussi e bagordi, di donne e denari spesi a fiumi, di feste e tornei, male si concilia con la dura realtà di un castello feudale le cui redini vanno tenute con decisione. Quando ieri gli dissi che avrebbe dovuto sposare la giovane figlia del conte e che non c’era tempo per tentennare, per trattare (i da Gorizia a suo tempo decapitarono i castellani di Pietrapelosa, senza alcuna remora), egli bestemmiò come un villano e scalciò come un puledro marchiato a fuoco. Poi, riflettendo sulla nostra sorte qualora fossimo stati sopraffatti dalle truppe del goriziano, accettò la proposta sbuffando e imprecando, giurando vendetta e morte, ma soprattutto augurandosi che la pulzella fosse degna del suo alto lignaggio. Mi parve chiaro che Nicolò si sarebbe trovato a suo agio presso la corte dei da Gorizia, nobili dissoluti e tiranni senza scrupoli. Forse i posteri riterranno che la mia scelta sia stata un buon affare e che sto facendo bene a non elevar reclami, dentro di me però sento di andare contro i valori nei quali ho sempre creduto. Questione di giorni e l’altezzosa Elisabetta giungerà a Momiano, in veste di promessa sposa, per conoscere l’aitante Nicolò. Il castello sarà addobbato con festoni di fiori freschi fissati ovunque, persino sul ponte levatoio calato, arrendevole al goriziano; colorate bandiere arrecanti i simboli dei casati sventoleranno sulla torre, e nel cortile tendoni candidi accoglieranno gli ospiti, allietati da sontuosi banchetti e da fiumi di vino nero. Ed io dovrò mostrarmi gioioso nell’accettare in famiglia questa nobildonna piena di pretese, abbracciandola come un padre; dovrò mostrarmi accondiscendente con Enrico e arrendevole con la sua orda di barbari, per poi brindare con tutti loro al precipitoso matrimonio. Questa mia inabilità a rimanere fedele ai valori nei quali un tempo credevo è forse l’effetto della grande tenebra che si avvicina, che si getta fugace e cattiva sulla testa canuta del signore che ero. Quindi non mi rimane che tacere, perché non passerà tanto tempo che mi ricongiungerò con i principi eterni, con la vita dopo la morte e solo Dio potrà giudicarmi. Sento la guardia in subbuglio, il ponte abbassarsi: Enrico sta facendo il suo trionfale ingresso al castello e io lo devo accogliere come si conviene. Mi accomiato da questo scritto, a breve da questo castello; il cuore ora mi suggerisce che la battaglia più difficile da vincere è quella con se stessi, dove non ci sono spade o armature, dove non ci sono strategie o compromessi che possano difenderci dalle nostre inquietudini.